domenica 8 settembre 2019

ATTENZIONE! SOSPENSIONE AGGIORNAMENTO BLOG

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sabato 30 agosto 2014

Un esempio israeliano di omofobia


Spiace dover segnalare questo esempio di omofobia israeliana: un marito ebreo israeliano ha posto come condizione per concedere alla moglie il get [divorzio religioso ebraico] che i loro figli non incontrino mai la sua amante.

Purtroppo, il tribunale rabbinico competente, anziché fargli la più elementare delle domande ("Se tua moglie ti avesse lasciato per un altro uomo, riterresti ragionevole imporre che i vostri figli non lo incontrino mai?"), gli ha dato ragione.

Il caso è stato divulgato dal Centro Israeliano per la Giustizia alle Donne, il quale sta istruendo un ricorso alla Corte Suprema d'Israele. È un po' strano che un tribunale laico (la Corte Suprema) si ingerisca nelle sentenze dei tribunali religiosi, però in Israele non esiste l'elementare separazione tra stato e religione data dall'esistenza di matrimonio e divorzio civile, e perciò è giocoforza che la Corte Suprema abbia giurisdizione anche sui tribunali religiosi.

Il giorno in cui ci sarà separazione completa, la Corte Suprema potrà lasciare in pace i tribunali religiosi.

Raffaele Ladu

sabato 15 giugno 2013

Vicenza Pride

Il Gran giorno è arrivato! 

SABATO 15 GIUGNO 2013 - ORE 16:30 CAMPO MARZO -VICENZA 

ll “Vicenza Pride 2013” culminerà nella parata “VENETO LGBTQIE PRIDE 2013” che si svolgerà tra le vie del centro storico di Vicenza il giorno SABATO 15 GIUGNO. Il “Veneto LGBTQIE Pride 2013” sarà una manifestazione aperta a tutt*, veneti e non, lgbt e non: chiunque voglia manifestare con gioia la propria unicità e la ricchezza che deriva dall’unione di tutte le nostre differenze.

 NON MANCATE! Per i veronesi che vogliono aggregarsi a noi ore 14.00 - Stazione di Porta Nuova Verona

mercoledì 12 giugno 2013

Israele davvero gay-friendly?

[0] http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4391274,00.html

Credo che l’articolo spieghi bene la realtà israeliana senza mitizzarla né demonizzarla – estremi che cerco sempre di evitare.

Una buona notizia c’è anche per noi italiani: rispetto alla precedente ricerca del 2007, l’accettazione delle persone LGBT è cresciuta in Italia del 9%, arrivando al 74%.

Considerato che paesi come il Canada e l’Argentina hanno istituito il matrimonio egualitario pur avendo percentuali di accettazione inferiori od uguali alla nostra, direi che abbiamo i numeri per vincere.

Buona lettura e ciao, RL

(inizio)

Una nuova indagine mette in discussione l’immagine gay-friendly di Israele


Un’indagine di un istituto di ricerca americano rivela che Israele sarà forse la capitale gay del Medio Oriente, ma quando si tratta di accettare i suoi fratelli gay, si fa lasciare indietro dai paesi occidentali: solo il 40% degli israeliani pensa che la comunità LGBT debba essere accettata, contro l’88% della Spagna. C’è un enorme divario tra i laici (sostegno al 61%) ed i religiosi (sostegno al 26%).


Ynet Pubblicato:  06.12.13, 09:41 (8:41 ora italiana) / Israel News  


Ne abbiamo da imparare: per anni Tel Aviv è stata considerata una delle città più liberali del mondo e la capitale gay del Medio Oriente. Sia tra il pubblico israeliano che sui media, sembrano essere cresciuti il progresso ed una crescente apertura verso la comunità LGBT, ma i dati rivelati dal Pew Research Center americano mostrano un’altra faccia d’Israele.

Secondo una completa indagine condotta dall’istituto in 39 paesi, solo il 40% degli israeliani pensa che l’omosessualità sia qualcosa che la società deve accettare, mentre il 47% pensa il contrario. Questa cifra [penso che alluda a quella di chi accetta, non a quella di chi rifiuta] è inferiore a quella di ogni altro paese occidentale e sviluppato in cui si è condotta l’indagine, con l’eccezione del Sud Africa. Eppure, Israele è il paese del Medio Oriente che più accetta i gay.

L’indagine che ha intervistato 37.653 persone in tutto il mondo, è stata condotta tra il 2 Marzo ed il 1 Maggio 2013, ed ha provato ancora una volta che la tolleranza verso l’omosessualità cresce quando il ruolo della religione nella vita della popolazione diminuisce.

Lo studio mostra inoltre che globalmente, la tolleranza verso gli omosessuali è maggiore tra i giovani, ed in un notevole numero di paesi, le donne sono più tolleranti degli uomini verso i gay.

Secondo lo studio, il paese che più accetta i gay è la Spagna, dove l’88% degli intervistati ha risposto che la società dovrebbe accettare la comunità LGBT. Nell’Unione Europea, la Spagna era seguita dalla Germania (87%), la Repubblica Ceca (80%), la Francia (77%) ed il Regno Unito (76%). Anche in Italia, dove si percepisce che la religione gioca un grande ruolo nella vita, il 74% degli intervistati ha risposto favorevolmente.

La conservatrice Grecia aveva un tasso di accettazione del 53%.

Tra i paesi più tolleranti c’erano: il Canada (70% di sostegno) e gli USA (60%) in Nordamerica; in America latina, l’Argentina (74%), il Cile (68%), il Messico (61%) ed il Brasile (60%). I paesi dell’Asia e del Pacifico davano un immagine perlopiù sconsolante, ma tra loro spiccavano l’Australia (79%) e le Filippine (73%).

I paesi islamici avevano la minore accettazione dei gay, dacché quasi tutti avevano la maggioranza della popolazione contro l’accettazione degli omosessuali: 97% in Giordania, 95% in Egitto, 94% in Tunisia ed il 93% nell’Autorità Palestinese ed in Indonesia. Pure in Turchia, un paese sviluppato ritenuto largamente occidentalizzato negli ideali, il 78% della popolazione si oppone all’omosessualità.

Secondo lo studio, in Israele la tolleranza verso i gay degli ebrei laici è più che doppia di quella di coloro che si sono descritti come tradizionali, religiosi od haredi [ultraortodossi] (61% contro il 26%). Solo il 2% dei mussulmani in Israele [sono circa il 15% della popolazione: secondo il Ministero dell’Interno, che non si vergogna di registrare l’appartenenza religiosa di ogni cittadino israeliano, l’80% degli israeliani è ebreo, il 15% mussulmano, il 5% cristiano o di altra religione].

Secondo l’Istituto Pew, nella maggior parte dei paesi su cui si è indagato non c’erano differenze significative tra le risposte degli uomini e delle donne, ma Israele era diverso. Secondo i dati [raccolti], Israele è il paese in cui il divario tra le opinioni degli uomini e delle donne sull’argomento è maggiore – il 17% (il 48% delle donne pensa che loro dovrebbero essere accettati, a confronto con solo il 31% degli uomini).

[Mi permetto di intromettermi: questo risultato dovrebbe essere confrontato con quelli riscontrati dall’Università Bar Ilan in degli esperimenti di psicologia sociale condotti su dei bambini e riferiti in un articolo magnifico, ma troppo lungo per essere tradotto qui; secondo il professor Gil Diesendruck, le femmine appaiono molto meno propense a discriminare dei maschietti, e lo dimostrano anche in tenera età].

Un’altra nota interessante è che la tolleranza verso l’omosessualità in Israele è diversa a seconda dell’età: [tollerano] il 40% di quelli tra i 18 e 29 anni; il 44% di quelli tra i 30 ed i 49 anni, ed il 35% di quelli di 50 anni e più. Comunque, i giovani israeliani sono ben lontani da quelli dei paesi europei: in Spagna, accetta gli omosessuali il 91% di coloro che sono tra 19 e 30 anni, ed in Germania, il 90%. Gli altri paesi europei non sono tanto indietro.

Si può essere incoraggiati dal piccolo miglioramento sperimentato dal pubblico israeliano negli ultimi anni. Secondo l’Istituto Pew, dal 2007 c’è stata una crescita del 2% tra coloro che credono che gay e lesbiche dovrebbero essere accettati. Sei anni fa, i sostenitori erano solo il 38%.

Eppure, è un incremento limitatissimo: quasi tutti i paesi occidentali in cui si è indagato hanno sperimentato un miglioramento più significativo di questo dall’ultima indagine.

Il primato è della Corea del Sud, che ha sperimentato una notevole crescita del 21%, seguita da USA (+11%), Canada (+10%) ed Italia (+9%). Interessante notare che questa volta nell’Autorità Palestinese c’è stata una diminuzione del 5% della tolleranza verso gay e lesbiche.

[Temo che la spiegazione l’abbia data quest’articolo l'anno scorso, in quanto spiegava che dall'anno 2000 è pessima abitudine dei servizi segreti israeliani reclutare le minoranze sessuali palestinesi al loro servizio, minacciando l’outing, che nell’Autorità Palestinese può costare la vita – questo potrebbe voler dire che ai tabù religiosi e sociali contro gli omosessuali si aggiunge il sospetto non manifestamente infondato che essi siano sul libro paga degli israeliani].

(fine)

Traduzione e note tra parentesi quadra di Raffaele Ladu

lunedì 10 giugno 2013

Strade che divergono / Judith Butler

Israele è uno strano paese: coloro che sono più pronti a lodarlo per lo stato dei diritti LGBT (migliore di quello italiano, ma non paragonabile a quello olandese) sono anche quelli che più disprezzano Judith Butler.

Il suo libro appena pubblicato in Italia

• Strade che divergono : Ebraicità e critica del sionismo / Judith Butler ; traduzione di Fabio De Leonardis. – Milano : Raffaello Cortina Editore, 2013. – ISBN 9788860306916. – Prezzo EUR 26,50

Riassume ciò che nel suo pensiero la porta a contestare il sionismo politico, ovvero il movimento che ha portato a fondare lo Stato d’Israele. Quando avrò finito di leggere il libro, lo recensirò; per il momento mi pare opportuno riportare questo suo brano (tratto dall’introduzione, pp. 6-8):
Anche se tale conclusione è inaccettabile, non sembra esservi un modo facile per aggirare questo paradosso. Un argomento, tuttavia, appare chiaro: l’uguaglianza, la giustizia, la coabitazione e la critica della violenza di stato possono rimanere valori ebraici solo se essi non sono esclusivamente ebraici. Questo significa che l’articolazione di tali valori deve negare il primato e l’esclusività della prospettiva ebraica, deve subire una dispersione. Anzi, come spero di dimostrare, questa dispersione è una condizione di possibilità per pensare la giustizia, una condizione di cui faremmo bene, di questi tempi, a ricordarci. Si potrebbe replicare: “Ah, la dispersione – un valore ebraico! Derivato dalla dispersione messianica e da altre figure teologiche che rappresentano la diaspora! Cerchi di allontanarti dall’ebraicità, ma non ci riesci!”. Se, tuttavia, la questione della relazione etica con il non ebreo è quella che determina ciò che è ebraico, allora non possiamo cogliere o consolidare ciò che è ebraico in questa relazione. La relazionalità soppianta l’ontologia, ed è pure un bene. Il punto non è dare stabilità all’ontologia dell’ebreo o dell’ebraicità, bensì comprendere le implicazioni etiche e politiche di una relazione con l’alterità che è irreversibile e determinante, e senza la quale non possiamo capire termini fondamentali come uguaglianza o giustizia. Tale relazione, che certamente non è singolare, sarà un passaggio obbligato per andare oltre l’identità e la nazione come strutture determinanti. Essa pone la relazione con l’alterità come costitutiva dell’identità, vale a dire che la relazione con l’alterità interrompe l’identità, e che questa interruzione è la condizione della relazionalità etica. Si tratta di una concezione ebraica? Sì e no.

(…)

Può sembrare un paradosso mettere l’alterità o l’”interruzione” al centro delle relazioni etiche. Ma per saperlo dobbiamo prima considerare che cosa significano questi termini. Si potrebbe argomentare che il tratto distintivo dell’identità ebraica sia il suo essere interrotta dall’alterità, e che la relazione con i gentili definisca non solo la sua condizione diasporica, ma anche una delle sue fondamentali relazioni etiche. Sebbene tale affermazione possa essere vera (nel senso che fa parte di un insieme di affermazioni che sono vere), essa riesce ad attribuire all’alterità solo il ruolo di predicato di un soggetto preesistente. La relazione con l’alterità diventa un predicato dell’”essere ebreo”. È ben diverso intendere quella stessa relazione come qualcosa che sfida l’idea di “ebreo” come una sorta di essere statico, che può essere descritto adeguatamente come soggetto. Se “essere” quel soggetto significa essere già entrati in una certa modalità relazionale, allora l’”essere” cede il passo a una “modalità di connessione” (suggerendo un modo per pensare a Lévinas in rapporto a Winnicott). Al fine di riflettere su questo problema, il sostenere che l’essere vada ripensato come modalità del relazionarsi, o l’insistere sul fatto che una modalità del relazionarsi contesti l’ontologia, è in fin dei conti meno importante rispetto al primato della relazionalità. Inoltre, il genere di relazionalità in questione “interrompe” o sfida il carattere unitario del soggetto, il suo essere identico a se stesso e la sua univocità. In altre parole, al “soggetto” accade qualcosa che lo sposta dal centro del mondo; una richiesta proveniente da un altro luogo mi rivendica, mi si impone, o arriva persino a provocare una divisione al mio interno, e solo tramite questa scissione del mio io ho una possibilità di entrare in relazione con un altro. Se qualcuno provasse ad affermare che questa è la formulazione dell’”etica ebraica” proposta in questo testo, avrebbe solo parzialmente ragione. Essa è ebraica/non ebraica, e il suo senso sta appunto in questa disgiunzione che congiunge. Comprendere questa prospettiva, di per sé necessariamente duplice, sarà importante per cogliere perché una prospettiva diasporica possa essere cruciale per la teorizzazione della coabitazione e del binazionalismo, purché sia chiaro che la “convivenza” non è praticabile in una situazione di assoggettamento coloniale che non ratifichi questa condizione politica. Di conseguenza, i progetti di coesistenza possono partire solo dallo smantellamento del sionismo politico.
La mia personale posizione la si può definire postsionista: il sionismo ha tanti inconvenienti, che la Butler spiega meglio di me; però ha creato una cosa molto importante per gli ebrei come lo Stato d’Israele – ed è uno stato da cambiare, non da abbattere. Non è una posizione troppo diversa da quella di Yoram Kaniuk z.l., espressa qui.

Le argomentazioni della Butler sono coerenti con quelle delle sue teorie queer, ed un brano dell’introduzione che non ho ritenuto necessario riportare è stato quello in cui la Butler cita Hannah Arendt, nel punto in cui ritiene delitto capitale, quello che a suo avviso meritava il capestro per Adolf Eichmann, l’aver voluto scegliere con chi coabitare la Terra.

I nazisti non volevano abitare la Terra insieme con gli ebrei; gli omofobi non vogliono abitarla insieme con i gay; il sogno neppur tanto nascosto della destra israeliana è mandare i palestinesi a vivere in Giordania.

Se non è etico né per la Arendt, né per la Butler scegliere con chi condividere la Terra, occorre un’etica prima ancora di una politica della convivenza. E la base di quest’etica è basare l’identità non sull’essenza, ma sulla relazione.

Questo significa anche rendersi (selettivamente) permeabili agli influssi che vengono dalle altre persone, ed includerli nella propria identità nella misura del possibile e dell’opportuno. Per secoli gli ebrei si sono trovati a svolgere questo ruolo di interfaccia tra diverse culture, e la Butler vuole che questo continui.

Ci sono degli omofobi che sembrano scimmiottare un’argomentazione della Butler, dacché rimproverano alle persone omosessuali di non essere aperte all’alterità, ed in particolare all’altro sesso.

In realtà, partono da un punto di partenza diametralmente opposto: mentre per la Butler l’identità deve basarsi sulla relazione, per queste persone si deve basare sull’essenza.

Ovvero, per costoro ogni uomo e donna empirici valgono come incarnazioni del Maschile e del Femminile; codesti principi sono fatti per entrare in relazione l’uno con l’altro, ma solo all’interno della forma sociale della famiglia, e durante l’incontro sessuale; il contatto tra queste essenze non ne cambia la natura, non più di quanto un ricevimento in ambasciata cambi le posizioni che due ambasciatori esprimono a nome dei rispettivi governi.

Il rapporto tra l’uomo e la donna empirici deve riecheggiare per queste persone il rapporto tra questi sommi principi – non è difficile ricordare a questo genere di omofobi che contro questa concezione della sessualità la Bibbia stessa mette in guardia, in quanto era quella che ispirava i culti della fertilità cananei contro i quali il Levitico lancia strali e proibizioni.

Ed il Cantico dei Cantici, preso spesso a modello per sposi e spose ebrei e cristiani, narra le avventure di una coppia di amanti un po’ monelli prima che l’amor loro trionfi, non i preparativi del Gran Sacerdote di Marduk e della Gran Sacerdotessa di Ishtar per il sacro coito che garantirà un buon raccolto!

In realtà l’esperienza comune mostra che ogni persona ha componenti psichiche sia “maschili” che “femminili”, e che tali componenti entrano in azione in tutte le situazioni sociali e perfino quando una persona è sola – perciò l’omosessuale non è privo di relazione con ciò che la tradizione assegna al sesso opposto al suo. Il fenomeno delle “frociarole”, ovvero delle moltissime donne che preferiscono avere amici gay ad amici etero, è la riprova di come l’essere omosessuale non voglia dire essere chiuso all’altro sesso.

Che le identità personali nascano dalla relazione con altre persone e non siano lo sviluppo di un’essenza non è necessario apprenderlo dalla Butler (che prende ad esempio gli ebrei nel brano citato, ma in tutta la sua opera parla di ognuno) – chiunque se ne rende conto esaminando la sua stessa vita, e chiedendosi perché mai si consiglia sempre a chi vuole imparare davvero di cercarsi un maestro e non mettersi a studiare da solo.

Raffaele Ladu

In mortem Yoram Kaniuk



Yoram Kaniuk (1930-2013)
Yoram Kaniuk è morto con un cuore molto turbato dallo stato di cui aveva aspirato la fondazione e per la quale aveva pure combattuto, venendo ferito nel 1948. Kaniuk era uno scrittore acclamato, prolifico e coinvolto [qui trovate un elenco dei suoi libri tradotti in italiano], che alla fine della sua vita divenne più popolare ed ammirato che mai.

Negli ultimi anni ha spesso espresso forti opinioni su varie tendenze nel paese e nella società israeliana. Era contro il razzismo ed un regime religioso, protestò contro il trattamento riservato ai vecchi ed agli scrittori, e si opponeva all’occupazione. In uno dei suoi ultimi articoli per Haaretz, egli scrisse, a proposito dell’istigazione alla violenza contro gli immigrati africani e la pubblicazione del libro Torat ha-Melekh: “La Kristallnacht israeliana ed il permesso di distribuire una versione ebraica del Mein Kampf rinforzano il sentimento che Israele è cambiato. Tutti quelli che vogliono uno stato halakhico [basato sulla legge religiosa ebraica] dalla faccia feroce ed orientato a destra si sentiranno rincuorati.”

Circa due anni prima della morte, Kaniuk chiese ad una corte distrettuale di essere “rilasciato dalla religione ebraica” ed essere registrato dal Ministero degli Interni [purtroppo in Israele il Ministero degli Interni registra anche la religione dei cittadini – cosa che nell’Unione Europea è severamente vietata, anche per tutelare gli ebrei d’Europa] come senza religione, esattamente come è capitato a suo nipote perché la mamma di lui non è considerata ebrea. Nella sua petizione, Kaniuk spiegava che lui non voleva far parte di un “Iran ebraico”. La sua lotta ebbe successo e fu registrato come senza religione.

Kaniuk vide questo come il permesso dato ad ogni persona di determinare la propria identità come la sua coscienza riteneva opportuno. Sfortunatamente, non ebbe altrettanto successo in altre battaglie simili, e fu amareggiato dallo stato per cui si era impegnato tanto per tutta la sua vita e che lo aveva così profondamente deluso. Kaniuk non era solo: parlava per una parte significativa della prima generazione di israeliani.

Kaniuk era un patriota israeliano con tutto il cuore e l’anima, e fu uno dei primi generatori dell’arte e della cultura israeliana sin dalla fondazione [nel 1948]. Le sue opere letterarie trattavano con le pietre miliari della storia ebraica, dall’Olocausto alla rinascita, e non aveva solo paura per il futuro dello stato, ma anche per il futuro della sua lingua. Con la sua morte sabato all’età di 83 anni, dopo un lungo periodo di sofferenze fisiche [aveva un cancro], egli lascia un retaggio che non si deve ignorare.

Kaniuk era un esempio di intellettuale che perseguiva la giustizia sociale. Lui ed i suoi amici prima combatterono per creare uno stato per gli ebrei, e poi per fondare questo stato come giusto, laico, democratico ed egualitario. Loro sono riusciti nella prima missione, ma poi hanno fallito. L’Israele del 2013 non è il paese dei loro sogni, e quello per cui hanno combattuto. Kaniuk non è stato il primo ad esserne deluso, e sfortunatamente non sarà l’ultimo. Avremmo dovuto dargli più attenzione quand’era vivo, e le sue battaglie non siano scordate dopo la sua morte.

Traduzione e note tra parentesi quadra di Raffaele Ladu

venerdì 7 giugno 2013

Tre articoli su ebraismo ortodosso, terapie riparative ed omosessualità

[0] http://milk-open-house.blogspot.it/2013/06/e-dio-creo-i-gay.html

[1] http://www.rabbis.org/news/article.cfm?id=105723

[2] http://www.jewishjournal.com/opinion/article/a_more_modern_view_of_homosexuality

[3] http://morethodoxy.org/2012/01/11/homosexuals-in-the-orthodox-community-by-rabbi-zev-farber/

Traducendo l’articolo [0] mi sono imbattuto negli articoli [1], [2] e [3]; [1] è una dichiarazione del Consiglio Rabbinico d’America, l’associazione dei rabbini ortodossi americani, che il 29 Novembre 2012 ha dovuto prendere atto che le terapie riparative sono inefficaci; in [2] la dichiarazione viene commentata da un famoso rabbino ortodosso, Yosef Kanefsky.

Questi ha osservato due cose: la prima è che il Consiglio Rabbinico d’America ha scaricato JONAH (un'associazione che propugna le terapie riparative) dopo che alcune persone che sono finite tra le sue grinfie le hanno fatto causa (il che vuol dire che, se JONAH perde la causa, cosa abbastanza probabile, anche il Consiglio Rabbinico d’America rischia di venir salassato, in quanto le vittime di JONAH potrebbero argomentare: “Chi ci ha consigliato, per non dire imposto, di gettarci tra le fauci del lupo?”), la seconda che questa presa di posizione segna la fine del modello medico dell’omosessualità anche nell’ambito religioso ebraico.

Se questo modello ha fatto uscire le persone omosessuali dalla categoria dei peccatori, imponeva però loro di cercare una “cura” per la loro condizione; poiché però i medici, quelli veri e seri a cui consiglia di rivolgersi il Consiglio Rabbinico d’America, si rifiutano ormai di trattare l’omosessualità come una malattia, anche i rabbini ne hanno dovuto prendere atto – cosa di cui non sono capaci persone del calibro di Tony Anatrella, che vaneggiano di cospirazioni degne dei “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”.

La soluzione che rav Kanefsky propone è quella di considerare l’omosessualità un teyku, ovvero un problema che non può trovar soluzione con mezzi umani – ciò consente ad ognuno di continuare a sostenere la propria opinione, ma non di usarla come un’arma.

[3] È un interessante articolo indipendente dai precedenti - peccato che nessuno dei tre superi l’eteronormatività.

Traduciamo:

[1 - inizio]

Presa di posizione del Consiglio Rabbinico d’America (RCA) su JONAH (Jews Offering New Alternatives to Homosexuality = Ebrei che offrono nuove alternative all’omosessualità)

29 Novembre 2012. Negli anni seguiti al primo commento del Consiglio Rabbinico d’America (RCA = Rabbinical Council of America) su JONAH (Jews Offering New Alternatives to Homosexuality = Ebrei che offrono nuove alternative all’omosessualità), “l’unica organizzazione d’impronta ebraica dedicata ad aiutare gli individui con un’indesiderata attrazione verso le persone del medesimo sesso a passare da gay ad etero” del Gennaio 2004, in cui suggerivamo che i rabbini avrebbero potuto indirizzare loro i membri della loro congregazione per una terapia riparativa, sono state sollevate molte perplessità su JONAH e le terapie riparative.

Come rabbini formati nella legge e nei valori ebraici, noi basiamo le nostre posizioni religiose sulle questioni mediche sulla miglior ricerca ed il miglior consiglio degli esperti e dei dotti in quest’area, insieme con la preoccupazione per il benessere religioso, emotivo e fisico di coloro su cui si riverberano le nostre decisioni. La nostra responsabilità è quella di applicare i valori halakhici (della legge ebraica) a queste opinioni.

Sulla base di una consultazione con un’ampia gamma di esperti della salute mentale e di terapeuti, che ci hanno informato della mancanza di studi scientificamente rigorosi a sostegno dell’efficacia delle terapie per cambiare l’orientamento sessuale, una rilettura della letteratura scritta dagli esperti e dalle principali organizzazioni mediche e della salute mentale, e sulla base dei resoconti delle conseguenze negative ed alle volte deleterie per i clienti di alcuni degli interventi propugnati da JONAH, il Consiglio Rabbinico d’America decise nel 2011, come parte di una complessiva presa di posizione sull’atteggiamento ebraico verso l’omosessualità, di ritrattare la lettera originale che faceva riferimento a JONAH. Ad onta di numerosi tentativi dell’RCA di avere la lettera rimossa dal sito web di JONAH, le nostre telefonate, le nostre lettere e le nostre email non hanno avuto risposta. Come ha affermato nel 2011 rav Shmuel Goldin, presidente dell’RCA: “La vogliamo rimossa. JONAH disse che era una lettera di sostegno, ma se la leggete, non lo è. Loro hanno preso un comunicato informativo e lo hanno ristampato, ed usarlo come un avallo è un errore”.

Noi crediamo che dei professionisti della salute mentale correttamente preparati che rispettano i valori e l’etica delle loro professioni possano fare la differenza nelle vite dei loro pazienti e clienti. L’RCA pensa che dei terapeuti responsabili, alleati con dei clienti cooperativi, dovrebbero essere capaci di operare su qualsiasi problema codesti clienti portino volontariamente in terapia. Le accuse rivolte a JONAH ci fanno dubitare che JONAH rispetti questi standard.

Rav Dott. Norman Lamm, Cancelliere della Yeshiva University ed autore dell’articolo pubblicato nell’Annuario 1974 dell’Encyclopaedia Judaica, intitolato “Judaism and the Modern Attitude to Homosexuality = L’ebraismo e l’atteggiamento moderno verso l’omosessualità”, il primo articolo contemporaneo ad affrontare la questione dal punto di vista della legge e della filosofia ebraica, aveva in origine lodato l’opera di Jonah. In risposta ai resoconti negativi verso l’attività di JONAH, ed alle riserve espresse a lui da rispettabili professionisti della salute mentale, il Dr. Lamm ha revocato il suo avallo a JONAH.

(…)

[1 – fine]

Quand’è che anche gli omofobi cristiani faranno la stessa cosa? Ora vi traduco il commento che ne ha dato rav Yosef Kanefsky [2]:

[2 – inizio]

5 Dicembre 2012

Una più moderna visione dell’omosessualità

La comunità Ortodossa Moderna americana è appena entrata in un territorio di cui non ha la mappa. La settimana scorsa, la nostra maggiore organizzazione rabbinica, il Consiglio Rabbinico d’America (RCA) ha formalmente revocato il suo sostegno a JONAH (Ebrei che offrono nuove alternative all’omosessualità). JONAH è stata a lungo il riferimento della comunità ortodossa per le terapie riparative, un processo che intende curare le persone delle proprie attrazioni omosessuali e sostituirle con attrazioni eterosessuali. Le cause civili appena annunciate contro JONAH da parte di quattro suoi ex-clienti, che accusano JONAH sia di frode che di abusi, sembrano essere state l’ultima goccia per l’RCA.

A stretto rigore, il comunicato dell’RCA scarica solo JONAH. Infatti, dice: “Noi crediamo che dei professionisti della salute mentale correttamente preparati che rispettano i valori e l’etica delle loro professioni possano fare la differenza nelle vite dei loro pazienti e clienti [e che questi professionisti] dovrebbero essere capaci di operare su qualsiasi problema [i loro] clienti portino volontariamente in terapia”. Ovviamente, questo è corretto. Ma il riconoscimento in questo comunicato della “mancanza di studi scientificamente rigorosi a sostegno dell’efficiacia delle terapie per cambiare l’orientamento sessuale” rappresenta un salto di paradigma. È un rifiuto della premessa fondamentale su cui si basano JONAH e tutte le terapie riparative, ovvero che l’orientamento sessuale può cambiare e che ogni cliente che si impegni abbastanza può diventare etero. Questo può non apparire una rivelazione a molti lettori. Ma con questo comunicato dell’RCA, la comunità Ortodossa Moderna è entrata in un mondo completamente nuovo.

Ogni discussione sulle sue possibili implicazioni pratiche deve basarsi su una comprensione – ed una valutazione – del contesto da cui è emersa. Chiunque di noi sia cresciuto nelle istituzioni Ortodosse negli anni ’80 od anche prima sa per diretta esperienza che dell’omosessualità, in particolar modo di quella maschile, si parlava con disgusto e raccapriccio, e che gli insulti agli omosessuali erano de rigueur. (Va detto, a nostra difesa, che ovviamente la società nel suo complesso non è che fosse molto diversa). Ed anche mentre si svolgevano le campagne per i diritti dei gay ed il riconoscimento dei gay, l’Ortodossia è rimasta in gran parte immobile ed immutata. Ci fu solo un serio tentativo di affrontare l’argomento in quel periodo, e fu il saggio scritto da rav Norman Lamm nel 1974, saggio che, pur utilizzando un linguaggio che nel contesto attuale è offensivo, prese l’iniziativa senza precedenti di distinguere tra il “peccato” ed il “peccatore”, affermando che, “mentre l’atto in sé rimane un abominio, il fatto della malattia ci impone l’obbligo della compassione pastorale, della comprensione psicologica, e della simpatia sociale”.

Sebbene indubbiamente, e per buone ragioni, le parole di rav Lamm suscitino ira, dolore e risentimento in molti lettori contemporanei, comprendere perché egli le usò è cruciale per capire il vero significato e le vere implicazioni degli sviluppi della settimana scorsa. Il paradigma della “malattia” per spiegare l’omosessualità (che era, a dire il vero, anche il paradigma dell’American Psychological Association fino al 1973, l’anno precedente) era la chiave di volta giuridica e teologica dell’argomentazione di rav Lamm e dell’Ortodossia. Giuridica perché consentiva di ricorrere alla categoria giuridica della “trasgressione per compulsione”, categoria che richiede un giudizio più generoso. Teologica in quanto forniva una risposta all’enigma di Dio, onnisciente, giusto e gentile, che non poteva certo proibire ciò a cui non si poteva umanamente resistere. Finché l’omosessualità era una malattia, l’incapacità di una persona di resistere alle sue tentazioni non doveva più essere addebitata ad un’insufficienza divina, ma ad una sfortunata insufficienza umana. Inutile dire che il paradigma della “malattia” portava inesorabilmente all’obbligazione di cercare una cura. E mentre la parte più moderna dello spettro Ortodosso cominciò già anni fa a stare alla larga dalle terapie riparative – vedi ad esempio il documento del Luglio 2010 “Statement of Principles on the Place of Jews With a Homosexual Orientation in Our Community = Dichiarazione di principi sul posto degli ebrei con orientamento omosessuale nella nostra comunità” – il centro continuava ad insistere su questo (vedi ad esempio il documento del 2011 “Declaration on the Torah Approach to Homosexuality = Dichiarazione sull’Approccio della Torah all’Omosessualità” [a quest’ultimo documento io, Raffaele Ladu, ho abbozzato una risposta qui]).

La dichiarazione dell’RCA però, quietamente, intrepidamente e coraggiosamente esplora un terreno nuovo. Riconoscendo che non c’è prova che la terapia riparativa sia efficace, e perciò non c’è obbligo di perseguirla, la nostra comunità sta riconoscendo che l’omosessualità potrebbe semplicemente essere parte della condizione umana. Allo stesso modo, noi abbiamo deciso che gli omosessuali non dovranno più pagare il prezzo psicologico, emotivo e pure fisico del nostro comfort teologico. Noi abbiamo in effetti dichiarato che questa questione teologica è un teyku, una di cui tuttora occorre trovare la risposta. Ma una che, nel frattempo, non ci impedirà di vedere le verità umane davanti ai nostri occhi.

Non è realistico attendersi che l’Ortodossia un giorno riconosca le relazioni omosessuali come uguali a quelle eterosessuali, od autorizzi il matrimonio gay, o addirittura abbandoni l’idea che il sesso gay sia una trasgressione della legge biblica. Le credenze di base dell’Ortodossia sulla divina origine della Torah e sull’autorità dell’halachah (la legge ebraica tradizionale) impediscono sviluppi siffatti. In altre parole, se la Torah dichiara proibita una particolare azione, non è in nostro potere dire altrimenti. Ma noi possiamo guardare agli atti omosessuali allo stesso modo in cui guardiamo ad altre forme di trasgressione, come facciamo, ad esempio, con la trasgressione della kashrut, sia nel senso che non implica un’accusa di immoralità [perché violare la kashrut non nuoce a nessun essere umano – NdR], che nel senso che non ci impedisce di avere una normale relazione familiare con qualcuno. Lo spostamento dalla “comprensione” di rav Lamm al riconoscimento dell’RCA della realtà dell’orientamento sessuale può e deve portarci in un luogo in cui noi possiamo accettare i nostri amici, figli e fratelli per quello che sono, offrire loro la dignità ed il rispetto che ogni persona merica, ed amarli come i nostri.

Nella nostra comunità, è un mondo completamente nuovo.

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Il terzo articolo è interessante, ma fa pagare ai bisessuali il dazio dello sdoganamento degli omosessuali. Per questa volta, pazienza!

[3 - inizio]


[postato l’11 Gennaio 2012]
Gli omosessuali nella comunità Ortodossa – di rav Zev Farber

Rav Zev Farber è stato ordinato (yoreh yoreh [ordinazione e diploma di 1° livello] e yadin yadin [diploma di 2° livello]) dalla Scuola Rabbinica dell’YCT. È il fondatore di AITZIM (Atlanta Institute of Torah and Zionism = Istituto di Atlanta per la Torah ed il Sionismo) – un’iniziativa di educazione degli adulti. Rav Farber fa parte del Consiglio Direttivo dell’International Rabbinic Fellowship (IRF) ed è il coordinatore del loro Vaad Giyyur [Consiglio sulle Conversioni]. È anche un dottorando alla Emory University’s Graduate Division of Religion.


Introduzione

Poche questioni sociali che la comunità ebraica ortodossa deve affrontare sono tanto emotivamente cariche come quella del posto degli omosessuali, e specialmente la tormentosa questione del posto delle coppie e delle famiglie omosessuali nella sinagoga e nella comunità. Molti rabbini non sanno che suggerire ad un ebreo ortodosso gay che cerca una guida.

Una volta ho suggerito ad un collega il seguente esperimento mentale: “Se, per qualche ragione, divenisse chiaro che la Torah ti vietasse di sposarti o di aver mai una soddisfacente relazione intima, che faresti?” La mia risposta sarebbe: “Sebbene una parte di me spera che io sia capace di seguire il dettato della Torah, averi dei seri dubbi sulla possibilità di riuscirci, ed ho fiducia che i miei amici e colleghi mi sosterrebbero comunque.”


Non è un problema morale

Sfortunatamente, molta della retorica che tradizionalmente circonda l’omosessualità sembra derivare da una confusione di categorie. Per l’ebreo ortodosso credente, un incontro omosessuale è una trasgressione religiosa, simile al mangiare gamberetti od al guidare di sabato. Non è una trasgressione morale, simile al violentare le donne od al frodare negli affari. Molta della retorica sull’omosessualità sembra focalizzarsi su un discorso morale, e sento che questo è un grave errore.

Sebbene la polemica che circonda l’omosessualità abbia assunto varie forme nel corso degli anni, la forza motrice dell’attuale polemica è il cambiamento nella visione dell’omosessualità e le sue cause. Nel passato, il più forte argomento contro l’omosessualità era che questo comportamento era “deviante” e l’atto “innaturale”. L’ultima affermazione è intrinsecamente falsa, dacché in realtà il fenomeno si riscontra in natura. L’affermazione che il comportamento è deviante è vero solo nel senso che, dal punto di vista statistico, devia dalla norma, ma dire che una persona ha un orientamento sessuale minoritario di per sé non è una critica dal punto di vista morale.

La differenza genera paura, specialmente quando la differenza è dura da capire. È difficile per molti etero immaginare che sarebbe possibile per una persona mancare di ogni attrazione ai membri del sesso opposto. È ancora più difficile per un etero raffigurarsi attratto dai membri del proprio sesso. Questa può essere una ragione per cui, per secoli, era la norma un atteggiamento di disprezzo, perfino di attacco, verso gli omosessuali.

Un esempio eccellente, ma triste, di questo è una lettera di rav Moshe Feinstein scritta nel 1976 (Iggrot Moshe OH 4:115), in cui egli tratta l’attività omosessuale come una qualsiasi altra scelta. La lettera è diretta ad un giovane omosessuale che chiedeva a rav Feinstein qualche suggerimento che lo aiutasse a controllare le sue pulsioni. Rav Feinstein ci ha anche provato, informandolo che non esiste proprio una cosa come il desiderio omosessuale. La Natura impone, scrisse rav Feinstein, che le persone siano attratte dai membri dell’altro sesso e non dai membri del proprio. Pertanto, l’unica spiegazione per il comportamento omosessuale era un’espressione di ribellione contro Dio. Se solo uno riuscisse a controllare la propria rabbia contro Dio, uno potrebbe vivere una “normale” vita eterosessuale. Ora noi sappiamo che questa non è affatto un’accurata descrizione del desiderio omosessuale, ma le opinioni di rav Feinstein erano tipiche della sua era, e non poteva certo pensarla diversamente.


La Dichiarazione e l’Affermazione

La differenza tra la natura del discorso negli anni ’70 ed il discorso contemporaneo è chiaramente dimostrata nella recente Dichiarazione abbozzata dalle comunità Ortodosse di destra e centro-destra, e firmata da oltre 150 rabbini, leader laici e professionisti della salute mentale di codeste comunità ( http://www.torahdec.org [la mia risposta si trova qui]).

La dichiarazione ha creato in me un conflitto di sentimenti. Dopo aver ribadito la natura proibita dell’incontro omosessuale, la Dichiarazione afferma inequivocamente che l’omosessualità è un disturbo curabile e psicologico – non genetico, non ormonale. Istruisce la comunità ortodossa a trattare gli omosessuali con gentilezza, mentre li indirizza verso una terapia riparativa.

In parte, sono stato sollevato. La Dichiarazione usava espressioni come “amore, sostegno ed incoraggiamento” come descrizioni di come le persone ortodosse dovrebbero sentirsi a proposito degli omosessuali nelle loro comunità. È un’enorme differenza rispetto alla bellicosa omofobia che molti ormai si aspettano dai gruppi religiosi fondamentalisti.

D’altro canto, sono stato anche molto turbato. La Dichiarazione propugna con forza la terapia riparativa o di conversione, una pratica pseudoscientifica e screditata dal punto di vista medico che molti professionisti ritengono pericoloso; l’American Psychological Association arriva a dire che ogni terapeuta che fa uso della terapia riparativa viola il Giuramento di Ippocrate.

La Dichiarazione inoltre sostiene che l’omosessualità dev’essere tanto psicologica che curabile, dacché Dio non può essere tanto crudele da creare persone con desideri omosessuali e proibir loro di soddisfarli – un argomento teologicamente dubbio, a dir poco. Mi azzardo a dire che chiunque sia o conosca qualcuno che soffre di una delle innumerevoli gravi malattie incurabili sarebbe sorpreso dall’affermazione che Dio non creerebbe mai una persona con un assetto biologico capace di rovinarne la vita.

La Dichiarazione sembra essere una reazione all’“Affermazione di Principi” sull’omosessualità firmata da 200 rabbini ortodossi, nonché leader comunitari, di centro e tendenti a sinistra l’anno prima. Stranamente, l’“Affermazione di Principi” di sinistra, sebbene assai più sofisticata e sfumata della recente Dichiarazione, ha molto in comune con essa.

L’Affermazione di Principi, come la Dichiarazione, riafferma la natura proibita dell’incontro omosesuale. Al contrario della Dichiarazione, ammette che l’omosessualità possa essere geneticamente e/o ormonalmente determianta, e prende atto che la terapia riparativa può essere una frode ed anche pericolosa. L’Affermazione, come la Dichiarazione, chiede alla comunità ortodossa di trattare gli omosessuali con amore e rispetto. D’altro canto, l’Affermazione chiede agli ebrei ortodossi gay di vivere da celibi. Anche se invoca comprensione per chi non vive da celibe, l’Affermazione suggerisce che se questi ebrei omosessuali dichiarano pubblicamente il loro stile di vita – e l’Affermazione sancisce il loro diritto ad esserlo – sarebbe prerogativa di una sinagoga o comunità ortodossa di non accettarli o conferire loro cariche ed onori.

Anche se apprezzo il tentativo di entrambi i gruppi di far sentire gli omosessuali meglio accolti nella nostra comunità e smorzare I toni dell’agguerrita omofobia, entrambi i documenti, secondo me, non ci riescono. Sin da quando mi sono rifiutato di firmare l’Affermazione – un documento di cui condivido fortemente lo scopo e che è stato articolato e firmato da molti buoni amici e mentori – ho pensato molto alla relazione del mondo ortodosso con gli ebrei omosessuali, sia quelli sessualmente attivi che quelli celibi, e su cosa bisogna “dichiarare” od “affermare” su di loro.


La necessità della comprensione e la sfida dell’empatia

Per gli ebrei omosessuali che vogliono vivere una vita ebraica ortodossa ed integrarsi nella comunità ortodossa, si richiede molta empatia da parte della comunità ortodossa eterosessuale, specialmente da parte dei rabbini. I firmatari sia della Dichiarazione che dell’Affermazione sono in prevalenza, e forse nella totalità, eterosessuali. Molti sono sposati con figli, come me. Le nostre famiglie si riuniscono per i pasti del Sabato e celebrano gli eventi del ciclo di vita in sinagoga. Molti di noi ricevono l’approvazione della comunità per essere sposati e per essere dei bravi coniugi. Abbiamo delle relazioni intime amorevoli e soddisfacenti a casa. Per noi la vita è piuttosto facile.

È una grande sfida per gli ebrei ortodossi gay internalizzare davvero la dissonanza inerente al mondo psichico degli ebrei ortodossi gay. Come tutti gli ebrei ortodossi impegnati in una vita di osservanza ebraica e della Torah, gli uomini e le donne ebree ortodosse omosessuali vogliono partecipare pienamente alla loro comunità. Loro vogliono venire in sinagoga e consumare i pasti del Sabato con i loro amici. Eppure, il testo centrale della loro comunità – un testo che amano e venerano – proibisce uno dei loro impulsi più fondamentali, senza lasciar loro alternativa praticabile.


Chiedere l’impossibile

Nel documentario Trembling before God, rav Nathan Cardozo afferma coraggiosamente: “Non è possibile che la Torah si metta a chiedere ad una persona di fare ciò di cui non è capace. Dal punto di vista teorico, sarebbe meglio per l’omosessuale vivere una vita da celibe. Ma rispondo con un solo argomento: è completamente impossibile. Non funziona. La forza umana della sessualità è tanto grande che non si può fare.”

Quello che chiediamo alla comunità ortodossa omosessuale è impossibile. È semplicemente irrealistico chiedere od aspettarsi che degli adulti normali restino celibi e rinuncino all’esperienza emotivamente appagante e vitale di una relazione intima che gli uomini e le donne etero danno per scontate.


Oness Rahmana Patrei

Il mio approccio alla materia è che la comunità ortodossa dovrebbe adottare il criterio dell’“oness rahmana patrei” – Il Misericordioso non bada a quello che una persona non può controllare. Questo era stato suggerito per la prima volta da rav Norman Lamm nell’Annuario 1974 dell’Encyclopaedia Judaica e credo che questo principio debba essere la base per formulare una risposta ortodossa aperta alle molte sfide dell’accettare ed integrare gli omosessuali nella nostra comunità.


Breve analisi halakhica

Il principio dell’ oness rahmana patrei origina in un caso in cui l’atto in questione era fisicamente fuori dal controllo della persona. Cionostante, il Talmud la applica ad un caso in cui una persona adora gli idoli per salvarsi la vita (b. Avodah Zarah 54a). Molti commentatori medievali si chiedono perché un caso simile dovrebbe essere considerato oness, dacché una persona può sempre accettare la morte piuttosto che violare così la legge ebraica. Una risposta a questo interrogativo è stata che una persona che viola una regola della Torah per salvarsi la vita è emotivamente costretta a farlo, e questa costrizione è una forma di oness. Io sosterrei che gli ebrei ortodossi gay, che cercano sinceramente il medesimo genere di soddisfacenti relazioni intime che gli ebrei eterosessuali danno per scontate, subiscono la stessa forma di costrizione emotiva. [1]

L’oness rahmana patrei è stata applicata nel corso degli anni a diversi casi nell’halakha, dal permesso di non trasferirsi in Israele per timore dei pericoli del viaggio (Noda bi-Yehuda Tanina, EH 102), alla donna che rifiuta di avere rapporti intimi con il marito perché lo trova repellente (Tosafot Rid, Ketubot 64rav Avraham Isaac Kook in Ezrat Kohen 55). Due precedenti in particolare ci servono come importanti analogie.

Il primo è che molte autorità halakhiche trattano il suicidio come un atto di oness, commesso sotto costrizione, e pertanto fuori dal controllo della persona (vedi, per esempio, Arukh ha-Shulhan YD 345:5; Kol Bo al Aveilut pp. 318-321). Questo sensato approccio halakhico consente alla famiglia di provare ed esprimere il lutto per il loro caro senza doverne infangare la memoria.

Più analogo alla situazione dell’omosessuale è il caso riportato dal Talmud (b. Gittin 38a) di una donna che era schiava solo in parte [perché aveva due padroni, e solo uno l'ha emancipata - vedi b. Gittin 42a], a cui era perciò proibito sposare sia un altro schiavo che un uomo libero. Mancandole uno sfogo religiosamente accettabile, la donna divenne oltremodo promiscua con gli uomini del luogo, ed i rabbini ordinarono al suo padrone di emanciparla in toto, in modo che ella potesse sposarsi. Discutendo questo caso, rav Meshulam Roth (Qol Mevasser 1:25) osserva che la situazione disperata della donna era per lei emotivamente intollerabile, e che il suo comportamento in questo caso dovrebbe essere considerato un caso di oness. Si potrebbe dire che la situazione degli ebrei omosessuali che vogliono seguire l’halakha è ancora più intollerabile. Se loro osservano quest’halakha, non hanno alcuna speranza di trovar mai una relazione intima d’amore.


Un diverso tipo di oness

Uno dei principali argomenti proposti contro l’approccio dell’oness, sin da quando rav Lamm lo suggerì quarant’anni fa, fu che la maggior parte dei casi di ones sono di un’azione puntuale intrapresa sotto costrizione. Questo non varrebbe per gli omosessuali, che, come gli eterosessuali, possono certamente controllare i loro impulsi in ogni momento dato, e ci si aspetta che lo facciano. Però, penso che sia un paragone sbagliato.

Gli impulsi sono controllati dal fattore calmante di sapere che c’è uno sfogo alternativo. Al contrario degli eterosessuali, gli ebrei ortodossi gay non hanno alcuno sfogo halakhicamente accettabile per la necessità umana vitale di relazioni intime, e non l’avranno mai. Questa è la differenza fondamentale tra questo caso di oness e la maggioranza degli altri casi. Uno non può vedere il celibato come un’astinenza di uno o più momenti. L’oness deriva dal peso che si accumula della totalità dei momenti della vita di una persona, ed in questo caso è un peso schiacciante.

Psicologicamente, gli ebrei ortodossi sono di fronte ad una di due opzioni: o essere sessualmente attivi ed isolare codesta trasgressione dalle loro menti consce, od essere celibi e vivere con la consapevolezza che loro non sperimenteranno mai una vera relazione intima. Io credo fermamente che quest’ultima non è affatto un’opzione vivibile per la maggior parte degli adulti, ma una prospettiva debilitante capace di schiacciare una vita. Propugnarla è un esercizio futile.

In verità, gli ebrei ortodossi gay che ricevono il consiglio o la pressione ad essere celibi, o ignorano il consiglio, si “velano”, o lasciano completamente l’ortodossia. Peggio ancora, se il senso di colpa o la dissonanza diventano troppo grandi, possono rivolgersi alla droga, alla promiscuità estrema o addirittura al suicidio. Questo non è affatto quello che vogliamo realizzare. Credo che dobbiamo venire a patti con il fatto che, alla lunga, gli ebrei ortodossi omosessuali non hanno altra scelta che consentirsi di soddisfare l’intenso desiderio di intimità fisica ed emotiva nell’unico modo aperto a loro.


Avvertenza

Certo, dichiarare un’azione oness non la rende halakhicamente consentita; non lo è. Inoltre adottare il principio dell’oness non significa che l’halakha riconosca il qiddushin (matrimonio ebraico) omosessuale – proprio no. Infine, il concetto di oness non copre le persone con una sessualità più fluida: coloro che sono capaci di formare un soddisfacente legame emotivo con i membri del sesso opposto e scelgono di averlo con un membro del proprio sesso non possono essere ragionevolmente ritenuti “costretti”.

Comunque, il concetto di oness si applica a quella percentuale della popolazione per cui l’amore omosessuale è l’unica possibile espressione di intimità emotiva e sessualità. Pertanto, è mia ferma credenza che la comunità ortodossa deve accettare il fatto che ci saranno degli omosessuali non celibi al suo interno, e dovremmo accoglierli.


Considerazioni sociologiche e politiche

Suggerirei inoltre, anche solo per motivi di politica sociale e salute comunitaria, che noi incoraggiamo l’esclusività e la formazione di un vincolo relazionale amorevole e durevole come lo stile di vita ottimale per gli ebrei ortodossi gay che sentono di essere in oness, e non possono essere celibi (e questa è la grande maggioranza). Questo tipo di relazione è la più vicina per carattere alla scelta fatta dalle coppie sposate eterosessuali nella nostra comunità. Le coppie ortodosse gay non dovrebbero essere penalizzate per aver formato una relazione impegnata; certo, i loro figli, naturali o adottati, non lo debbono essere. È obbligo delle sinagoghe di pensare creativamente e con mente aperta a come accomodare queste famiglie, specie quando si tratta di celebrare le feste dei figli.

Certo, se un uomo o donna ebrea omosessuale sente che lui o lei vuol seguire l’halakha ed essere celibe, e si rivolge al rabbino per avere incoraggiamento, il rabbino deve dare a questa persona tutto l’incoraggiamento che lui o lei richiede. Però, nessun rabbino ortodosso dovrebbe sentirsi obbligato a chiedere agli ebrei omosessuali di essere celibi. Per la maggior parte delle persone, questa non è una scelta praticabile, e propugnarla porterebbe a quella persona solo intenso dolore e senso di colpa.


Conclusione

Insomma, non ci dovrebbe essere alcuna penalizzazione sociale nel mondo ortodosso per essere un ebreo omosessuale non celibe. L’incontro omosessuale non è una infrazione morale; è solo la violazione di un divieto religioso, conseguenza inevitabile della strutturazione psicologica e pure fisiologica della persona. Se Dio non bada all’inevitabile, perché dovremmo farlo noi?

Rav Zev Farber, AITZIM,
Atlanta, GA

Note:

[1] Ovviamente, so bene della posizione di Rambam [Maimonide] (Mishneh Torah, Issurei Biah 1:9, Sanhedrin 20:3; vedi anche Maharshal, Yam Shel Shlomo, Yebamot 6:2) per cui l'oness non si applica mai al rapporto sessuale tra uomini perché "ein qishui ella le-da'at", cioè l'eccitazione maschile ha sempre uno scopo. Questa posizione è vigorosamente messa in discussione e dibattuta da diversi Rishonim ed Aharonim (vedi: Tosafot, Yebamot 53b s.v. she-anushu; Ramban [Nachmanide], Yebamot 53b; Rashba Yebamot 53b; Rosh Yebamot 6:1; Maggid Mishna, Issurei Biah 1:9; Kessef Mishna, Sanhedrin 20:3; Radbaz, Deot 4:19, rav Elchonon Wasserman, Qovetz He'arot 59:3). Una completa analisi dell'oness rahmana patrei e della sua applicazione al rapporto omosessuale maschile dovrà attendere una diversa occasione.

[3 - fine]

Raffaele Ladu