mercoledì 20 marzo 2013

L'incerto futuro delle sinagoghe gay

L’articolo è di grande interesse non solo perché mostra l’evoluzione di una parte importante (anche se numericamente limitata) del mondo LGBT, ma anche perché sono convinto che le sinagoghe gay americane stiano attraversando la medesima evoluzione che dovranno affrontare le organizzazioni LGBT laiche italiane – con due decenni d’anticipo.

Prepariamoci al futuro!


Note:

1. Le parole tra parentesi quadre sono aggiunte del traduttore;
2. L’aggettivo “comune”, che qui ricorre spesso per designare le congregazioni e le sinagoghe che non hanno una caratterizzazione LGBT, rende la parola inglese “mainstream”, che letteralmente significa “che fa parte della corrente principale”; tradurre questa parola con “tradizionale”, come suggerisce il sito http://www.garzantilinguistica.it/ , mi è parso gratuitamente offensivo – ma si accolgono volentieri i suggerimenti per una traduzione migliore.

(inizio)

L'incerto futuro delle sinagoghe gay

Mentre cresce l'accettazione sociale - così come gli iscritti - le congregazioni gay affrontano questioni senza precedenti

Di Michal Lemberger - 11 Marzo 2013


La Congregazione newyorkese Beit Simchat Torah ha fatto recentemente notizia annunciando l’acquisto di uno spazio di tre piani in un noto grattacielo nel West Side di Manhattan. Quando la costruzione sarà terminata, l’edificio nel Distretto Tessile ospiterà la prima sede permanente della CBST [Congregation Beit Simchat Torah] nei suoi 40 anni di storia.

“Eravamo in affitto in un luogo difficile da trovare, che riflette quello che era la comunità negli anni ‘70”, dice Sharon Kleinbaum, senior rabbi [femmina] della CBST – la più grande sinagoga fondata da persone LGBT del paese, con oltre 1.100 membri adulti, mentre appena cinque anni fa erano circa 650. “Ora sarà parte del contesto della città, sulla strada, non più nascosta alla vista. Senza un indirizzo, è difficile essere una presenza ferma, ed è quello che noi vogliamo diventare. Noi vogliamo dire che siamo parte vibrante della vita della città di New York e del mondo.”

Dall’altra parte del paese a Los Angeles, Beth Chayim Chadashim, la più vecchia sinagoga LGBT del paese, ha raggiunto di recente una simile pietra miliare, traslocando l’anno scorso nella sua nuova sede e celebrando lo scorso giugno il 40° anniversario.

Le congregazioni LGBT sono finalmente diventate autonome, dando una casa alle persone LGBT della comunità ebraica ed ai loro amici ed alle loro famiglie nelle città tanto grandi quanto piccole. Ma la sempre maggiore accettazione delle problematiche gay nelle sinagoghe comuni, Ricostruzioniste, Riformate e Conservatrici, arrivando perfino ad alcune frange dell’Ortodossia Moderna, implica che queste sinagoghe non sono più l’unica opzione per gli ebrei LGBT. Pertanto, le linee che una volta sembravano tanto nette hanno iniziato ad offuscarsi. Le sinagoghe LGBT di luoghi come Cleveland ed Atlanta stanno fondendosi oppure stanno andando oltre i limiti della loro designazione originaria e stanno attraendo degli iscritti più variegati, mentre anche le congregazioni comuni concedono l’iscrizione a nuovi soci gay e diventano più variegate anch’esse.

Secondo Jay Michaelson, fondatore di Nehirim, un’organizzazione dedicata alla spiritualità LGBT, “Ci sono persone per le quali vivere la loro identità ebraica è legato alla loro identità queer, ma per altri, il 2013 non è il 1983. La maggior parte delle sinagoghe, quelle non ortodosse, sono accoglienti, o perlomeno non chiudono loro la porta in faccia. Le sinagoghe LGBT non sono più come una volta l’unica possibilità per le persone gay.”

Perciò il futuro delle sinagoghe LGBT non è chiaro. Hanno raggiunto innanzitutto gli obbiettivi che hanno portato alla loro fondazione – e, se è così, sono già diventate obsolete, ora che le sinagoghe comuni sono diventate più accoglienti? Che ne sarà di queste sinagoghe fra altri 40 anni?

***

All’inizio degli anni ’70, il movimento dei diritti dei gay stava rafforzandosi. Anche se non era stato il primo incidente del genere, il raid di polizia del 1969 a Stonewall, ed i tumulti che ne seguirono, galvanizzarono la comunità gay, sia a New York che nel paese. Si formarono organizzazioni politiche e di sostegno, e le parate dei Gay Pride cominciarono ad attraversare le città americane.

Ma non fu solo la politica l’unica arena che vide un’ondata di nuove istituzioni LGBT. Coloro che avevano un’orientamento spirituale, marginalizzati o respinti dalle istituzioni religiose comuni, cominciarono a chiedere luoghi tutti loro in cui potessero riunirsi per formare una comunità e per pregare. La Metropolitan Community Church, la prima “chiesa gay” della nazione, ed altre istituzioni cristiane gay-friendly hanno cominciato ad ospitare eventi sociali e religiosi che riunirono folle di frequentatori. Ad onta delle ovvie barriere teologiche, alcuni ebrei parteciparono alle attività dell’MCC, sentendo che non avevano altra scelta. Non avevano trovato un luogo nell’establishment ebraico che consentisse loro di esprimere pienamente e pubblicamente sia la loro identità gay che quella ebraica.

Alla fine, dei piccoli grappoli di soprattutto uomini gay ed alcune lesbiche crearono delle sinagoghe apposite in città sparse per il paese, crescendo pian piano da attività da squattrinati a sinagoghe con tutti i crismi. La BCC di Los Angeles ha aperto le porte nel 1972. La CBST di New York l’ha seguita nel 1973. Alla fine degli anni ’70, erano state aperte sinagoghe LGBT in varie città in tutto il paese. In ognuna di esse, i gruppi LGBT emarginati, che desideravano degli autentici spazi comunitari e spirituali, formarono delle congregazioni che soddisfavano le loro necessità.

Anche se le prime congregazioni apparvero nel giro di pochi anni, non c’era alcuno sforzo concordato di creare un movimento. Corse voce nella comunità gay del paese che c’erano gruppi di persone che stavano mettendosi insieme, ma ogni congregazione nacque indipendentemente dalle altre. Nei primissimi anni esse non erano neppure affiliate con alcuna delle principali denominazioni ebraiche. Nessuno si aspettava che qualcuno dei principali movimenti ebraici volesse aggiungere ai suoi ranghi le sinagoghe LGBT. Il risultato fu che molti nella BCC furono sorpresi quando, nel 1974, il movimento riformato approvò la sua richiesta di affiliazione formale.

“Il sentimento prevalente nella comunità all’epoca era l’attendersi il diniego della richiesta,” dice Stephen Sass, storico non ufficiale della BCC e presidente della Jewish Historical Society of Southern California, “Ma quando loro andarono ad incontrare rav Arnold Kaiman, di quella che si chiamava allora Union of American Hebrew Congregations, ora Union for Reform Judaism, l’unica cosa che chiese fu, ‘In che possiamo esservi utili?’”

Mentre crescevano le congregazioni LGBT nel paese, molte si affiliarono ai movimenti Riformato o Ricostruzionista. Eppure, per decenni, gli ebrei LGBT dovettero scegliere: potevano essere palesemente gay nelle sinagoghe LGBT o rimanere velati dentro le congregazioni comuni. L’esclusione da queste sinagoghe comuni era vera – templi e sinagoghe, anche quelle della parte più liberale politicamente, socialmente e religiosamente dello spettro religioso, non accoglievano membri palesemente LGBT.

Mentre gli individui velati potevano partecipare ai riti, e pure iscriversi come soci, per le coppie e le famiglie LGBT era molto più dura. Non si riconoscevano i legami di coppia. I rabbini non compivano eventi di passaggio come il bris [circoncisione] o la simchat bat [gioiosa accoglienza della figlia] che marcassero due uomini come padri, o due donne come madri. Anche a livello sociale, poteva essere difficile partecipare, se anche solo una manciata di correligionari manifestava rumorosamente il proprio disappunto per la presenza di uomini gay o di lesbiche in sinagoga.

Come ha spiegato Idit Klein, direttrice esecutiva di Keshet, un’organizzazione ebraico-LGBT di azione politica, “Quando ho cominciato a fare questo lavoro, retribuito, il ritornello era: ‘La comunità ebraica mi ha respinto, o so che mi respingerebbe.’ Si percepivano autentiche ostilità e rigetto.”

Nel frattempo, le congregazioni LGBT si concentravano nel lavoro che intendevano svolgere. Esse celebravano i riti del venerdì sera e delle grandi feste, così come dei seder [cene pasquali] comunitari annuali. Con il passare degli anni, loro affrontarono la crisi dell’AIDS e crearono cerimonie che marcavano gli eventi della vita, tragici e gioiosi, che riflettevano la realtà della vita dei loro membri.

Osservanza religiosa, azione sociale, ed azione politica erano intrecciati fin dall’inizio nel movimento delle sinagoghe LGBT.. Fondate da coloro che combattevano per la propria legittimità in una cultura nazionale che celebrava ancora l’omofobia nel suo ordinamento giuridico e nella sua visione del mondo, le congregazioni non si videro mai come un rifugio dal mondo circostante. Semmai, come rimarcava Kleinbaum, erano un modo di impegnarsi in esso. “Noi stiamo davvero affrontando i problemi seri del 21° secolo. E questo viene dalla saggezza che abbiamo acquisito dall’essere una sinagoga gay,” lei diceva, spiegando l’impegno della CBST a lottare non solo contro il pregiudizio antigay, ma anche per i diritti degli immigrati, dei senzatetto e di altri.

Negli anni ’90, la realtà quotidiana di molti americani LGBT cominciò pian piano a cambiare. La spinta verso il matrimonio egualitario era ancora lontana, ma l’accettazione cresceva nelle sfere sia laica che ebraica.

All’inizio del 21° secolo, individui LGBT, coppie e famiglie omogenitoriali erano benvenute come membri a pieno titolo e pari condizioni nelle congregazioni comuni più liberali. Ma la dirigenza rimaneva arretrata. Mentre il movimento Ricostruzionista ordinò la sua prima rabbina lesbica nel 1985, e lo Hebrew Union College – Jewish Institute of Religion ha iniziato ad ammettere studenti palesemente LGBT al suo seminario rabbinico Riformato nel 1990, il movimento Conservatore ha dovuto aspettare il 2007 per seguirli.

***

Non più esclusi, gli ebrei LGBT si sono trovati in una nuova posizione. Per la prima volta loro potevano scegliere dove affiliarsi senza negare parte della loro identità. Fino a che punto è vero varia da città a città – gli ebrei LGBT fuori dalle aree metropolitane stanno ancora lottando – ma in molti luoghi in tutto il paese, è diventato possibile essere al contempo palesemente gay ed ebrei impegnati.

Non è difficile trovare esempi in cui le sinagoghe comuni sono entrate in rapporto con gli ebrei LGBT. Non solo i chierici di B’nai Jeshurun, la terza sinagoga Ashkenazita per anno di fondazione in America, celebrano matrimoni gay, l’intera comunità ha a gran voce invocato la legalizzazione (con successo infine) dei matrimoni gay nello stato di New York. Valley Beth Shalom, una grande sinagoga Conservatrice di Los Angeles, è da oltre un decennio che ha invitato le famiglie LGBT ad iscriversi, ed ha pubblicamente preso posizione contro l’omofobia dopo la decisione del 2001 dei Boy Scout d’America di escludere dalla dirigenza gli uomini gay. Anche le sinagoghe di città con minore popolazione ebraica si sono fatte avanti: Ru’ach, la havurah [associazione di laici] al servizio della comunità LGBT nel Temple Israel della Grande Miami, è attiva tutto l’anno. E, ad onta del disagio di alcuni membri, Agudas Achim, ad Austin, Texas, nel 2005 ha celebrato quello che hanno chiamato un brit ahavah (“patto d’amore”), solennizzando la relazione di una coppia lesbica, sulla bimah [palco da cui si legge la Torah] della sinagoga.

I mutamenti nelle sinagoghe e congregazioni comuni hanno avuto un profondo effetto sulle sinagoghe e sui templi LGBT. Quelli di Los Angeles, New York e San Francisco continuano a crescere e prosperare. Non si tratta solo delle sedi fisiche. Sono cresciute anche le loro missioni e popolazioni. Oltre ai programmi per i bambini, hanno visto crescere i loro membri che si dichiarano etero. Mentre, in linea di principio, la CBST non classifica i propri membri sulla base dell’orientamento sessuale, ora vanta un ampio contingente di etero. La Sha’ar Zahav di San Francisco, fondata nel 1977, non ha di questi scrupoli: un terzo delle sue 350 famiglie iscritte ora si dichiara etero, secondo il presidente emerito e membro anziano Alex Ingersoll.

Queste città sono abbastanza grandi da accomodare sia vibranti sinagoghe LGBT che un buon numero di congregazioni comuni che possono essere più attraenti per alcuni ebrei gay. In città più piccole, la possibilità per gli ebrei LGBT di affiliarsi ad istituzioni che un tempo potevano esser loro precluse ha prodotto diversi risultati.

Per esempio, a Boston la locale sinagoga LGBT Am Tikva esiste dal 1976, ma rimane piccola e guidata da laici. Allo stesso modo, la Congregazione Etz Chaim nella Florida meridionale mantiene degli iscritti devoti, anche se in buona parte attempati. Sia Boston che la Florida meridionale hanno ampie comunità ebraiche, ma Am Tikva e la CEC [Congregazione Etz Chaim] non rappresentano necessariamente il centro della vita ebraico-LGBT nelle loro comunità. Come si aprono nuove possibilità, gli ebrei LGBT locali scelgono le sinagoghe in cui pregare ed a cui iscriversi non basandosi solo sulla possibilità di essere accolti come gay e lesbiche, ma anche sulle preferenze personali: tipi di rito, programmi religiosi e sociali, e perfino quanto traffico dovranno affrontare il venerdì sera.

In altre città ancora, le sinagoghe LGBT stanno perdendo le loro caratteristiche distintive. A Cleveland, nel 2005 Chevrei Tikvah è diventata una havurah dentro una grande e ben avviata congregazione comune Riformata. E ad Atlanta la Congregazione Bet Haverim ha abbracciato la graduale espansione della sua missione; ora che è l’unico tempio Ricostruzionista della città, vanta con orgoglio l’essere stata fondata da gay e lesbiche mentre serve degli iscritti di cui ben il 50% si dichiara etero.

“Siamo stati un incredibile modello di come abbracciare le differenze e creare una vibrante comunità”, così spiega Jeri Kagel, presidentessa emerita di Bet Haverim, il processo di aprirsi ad un maggior numero di membri etero. Fondata come congregazione indipendente da un gruppo di gay e lesbiche, la sinagoga ha iniziato ad espandere la sua tipologia di iscritti prima ancora di congiungersi con il movimento Ricostruzionista, quando la sua visione progressista ha cominciato ad attrarre un sempre maggior numero di persone non-LGBT. Pian piano sono cambiati i criteri stabiliti dalla congregazione, dalla pretesa che i soci dovessero essere gay all’abolizione finale di tutte le restrizioni all’appartenenza.

“La nostra paura,” ha spiegato Kagel, “era che ci acquisissero, che si perdesse la nostra identità gay e lesbica, ma abbiamo infine deciso che non volevamo fare agli altri quello che avevano fatto a noi, ovvero non essere accoglienti.” Ma, lei ha aggiunto, “per fortuna non si sono realizzate le nostre paure, ma i nostri sogni. Siamo stati un incredibile modello di come abbracciare le differenze e creare una comunità vibrante”.

Eppure, le sinagoghe ad orientamento LGBT combattono con i medesimi problemi di tutte le altre congregazioni non-Ortodosse: sempre meno gente si iscrive. Anche le sinagoghe comuni più inclusive faticano a mantenere la loro base di contribuenti. La situazione sembra particolarmente desolante tra gli ebrei LGBT. Secondo Michaelson di Nehirim, solo il 12% appartiene ad una qualsiasi congregazione. Come ha detto Joan Schaeffer, la prima presidentessa lesbica del comune Temple Israel della Grande Miami, “La comunità ebraica cerca ebrei. La gente non si allinea più con le istituzioni religiose come faceva una volta, per cui di questi tempi è un po’ più facile essere quello che sei.”

Nel contempo, è cominciato un mutamento demografico. Negli anni ’90 sempre più famiglie nucleari hanno cominciato a far parte del tessuto delle sinagoghe LGBT. Per la prima volta, integrare i figli nella vita sinagogale è diventato un problema in ambienti formati da adulti. Quello che Kleinbaum nota per la CBST vale per tutte quante: le congregazioni LGBT “sono nate come comunità per adulti”, rompendo così con il modello di altri templi e sinagoghe liberali in America, che sono nate con lo scopo di servire famiglie con bambini piccoli.

Secondo Steven M. Cohen, direttore del Barman Jewish Policy Archivi alla Robert F. Wagner Graduate School of Public Service dell’Università di New York, il numero di persone LGBT affiliate ad una sinagoga non potrà che crescere quando avranno più figli, ed ha spiegato: “Le persone più coinvolte sono quelle che allevano figli ebrei, perché in quel momento della vita esse devono riflettere su quello che significa essere ebrei, ed hanno bisogno dell’aiuto di altri ebrei per socializzare i loro figli nella vita ebraica”.

Arriverà magari quel giorno, ma per ora gran parte degli ebrei LGBT non ha figli. Quelli che scelgono di partecipare alla vita sinagogale lo fanno per varie altre ragioni. “E ci sono persone”, dice Klein di Keshet, “che vogliono andare in una sinagoga ‘normale’. O vogliono un rabbino. O vogliono dei riti settimanali. O vogliono un rito particolare od una sinagoga con il proprio edificio. O per una miriade di altre ragioni che fanno scegliere alla gente una sinagoga al posto di un’altra.”

***

Le congregazioni LGBT si sono dimostrate una parte importante del paesaggio dell’ebraismo organizzato. Nel dare il benvenuto alle famiglie etero dei membri ed agli alleati etero del movimento, esse continuano ad insegnare alle sinagoghe comuni come diventare più inclusive. Hanno aperto la strada alla creazione di preghiere e cerimonie che sono tanto radicate nella tradizione quanto capaci di rispondere alle esigenze del mondo moderno. Si sono dedicate all’azione sociale ben prima che essa divenisse uno slogan nel mondo ebraico più ampio.

Ed il futuro? Visto che le sinagoghe liberali, sia LGBT che comuni, lottano per attirare e conservare i membri, si confedereranno per cambiare il modo in cui funziona la vita ebraica organizzata? Le sinagoghe comuni ricupereranno il terreno perduto e renderanno irrilevanti le sinagoghe LGBT?

Cohen la pensa così, specialmente perché c’è una significativa minoranza di “giovani adulti LGBT, la cui identità ha superato lo stadio dell’orientamento sessuale”. Michaelson di Nehirim concorda: “In linea generale, la generazione del millennio non è interessata ad autosegregarsi. Essere semplicemente gay è una noia. Per scegliere una comunità specificamente LGBT ci dev’essere un’altra ragione impellente, qualcosa che vada oltre la semplice identità.”

La tendenza senza dubbio continuerà, ma non è detto che presagisca la fine del movimento delle sinagoghe LGBT. In fin dei conti, l’ebraismo non è mai stato uniforme. Ha sempre accomodato le differenze, fossero tra Sefarditi ed Ashkenaziti, Ortodossi e Liberali, LGBT e comuni. Klein di Keshet predice: “Fra 40 anni, le sinagoghe LGBT saranno vive ed in forma, e continueranno l’attuale tendenza di essere sempre più variegate e sempre più sensibili all’inclusione, pur rimanendo sempre particolarmente sintonizzate sulle necessità delle persone gay, lesbiche, bisessuali e transgender.”

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(fine)

Traduzione di Raffaele Ladu, che saluta i lettori.

giovedì 7 marzo 2013

Sami Michael sullo stato d'Israele






Vi traduco l’articolo [1]; Sami Michael [2] è uno scrittore israeliano tradotto anche in italiano, ed è il presidente di [3], cioè l’Associazione per i Diritti Civili in Israele, ad onta della sua veneranda età (è nato a Baghdad nel 1926).

L’utilità dell’articolo non sta solo nella chiarezza che fa su alcune questioni israeliane, ma anche perché, mutatis mutandis, alcune delle dinamiche di esclusione qui descritte si trovano pure nel mondo LGBT.

(quote)

Sami Michael: ‘Israele – lo stato più razzista del mondo industrializzato’

Segue una traduzione del discorso tenuto dal grande scrittore israeliano Sami Michael ad una conferenza ad Haifa nel giugno 2012. E’ un ‘cri de coeur’ pieno di amore e dolore.

Nato e cresciuto in Iraq, Michael è stato un attivista politico e membro del Partito Comunista; quando fu emesso un mandato d’arresto contro di lui nel 1948, fuggì nel vicino Iran. Non potendo tornare in Iraq, immigrò in Israele nel 1949. Dopo aver lavorato come ingegnere e giornalista per il giornale arabo pubblicato ad Haifa Al-Itihad [4], è diventato un romanziere acclamato che è stato proposto per il Nobel per la letteratura. E’ tuttora un attivista per i diritti umani ed oggi è il presidente dell’ACRI [3] – l’Associazione per i Diritti Civili in Israele.

E’ da molti anni che Michael si descrive non come un sionista, ma come un patriota israeliano. Si definisce orgogliosamente come un ebreo arabo ed un irakeno.

In questo controverso discorso il mese scorso, egli disse di essere troppo vecchio per emigrare, ma invidiava coloro che potevano. Anche se insiste che è ancora un cittadino patriottico, non sente più Israele come la sua patria spirituale: ha voltato le spalle ai “valori umanistici ed ai diritti dell’umanità”. Il razzismo, il fanatismo religioso e l’occupazione stanno distruggendo lo stato, egli dice. Rischiamo di perderlo del tutto.

Io [Lisa Goldman, la traduttrice dall’ebraico all’inglese – vedi link #5] ho incontrato per la prima volta Michael nel suo appartamento di Haifa nell’estate del 2006, in quella che Israele chiama la Seconda Guerra del Libano, ed il Libano la Guerra di Luglio, quando ho accompagnato un giornalista europeo a cui dovevo fare da interprete. L’intervista fu interrotta un paio di volte dalla sirena che annunciava missili in arrivo. Nel mio blog post sull’incontro inserii un breve clip con Michael che parlava in arabo. Rivedendolo, sento che sei anni sono un periodo molto lungo. Una vita intera. E’ strano a dirsi di un incontro che è avvenuto durante una guerra, ma penso che egli fosse più ottimista allora. Io certo lo ero.

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Sami Michael nel suo appartamento di Haifa, Luglio 2006 (foto: Lisa Goldman)

Israele è lo stato più razzista del mondo industrializzato.
Di Sami Michael

Sono nato nel 1926, e provengo da una generazione che sta gradualmente svanendo. Pochissimi ricordano la caduta ed il catastrofico collasso del secondo impero del mondo. La Francia, la grande potenza mondiale che aveva costruito la Linea Maginot, la linea di difesa meglio progettata della storia, che aveva a sua disposizione un possente esercito, aviazione e marina, fu annichilita in sole tre settimane davanti ai nostri occhi stupefatti. Non fu soltanto uno choc, ma sin da allora il mio mondo è diventato più frammentato. Concetti come permanenza, una realtà che si fa capire da sola, ed una vita stabile sono stati espunti dal mio dizionario personale, eppure hanno acquisito un posto centrale nel sacro vocabolario israeliano, e fungono da Linea Maginot virtuale. Forse le cose che sto per dire sono aspre, ma per me sono il segnale d’allarme per i miei compatrioti, ed è per questo che ho deciso di dirle nella lingua madre dei miei figli e nipoti.

Israele è l’unico stato fondato dopo la Seconda Guerra Mondiale che sin dagli albori della sua esistenza è diventato una stupefacente storia di successo. Lo si potrebbe prendere a modello per le dozzine di paesi che sono emersi dalla soggezione coloniale e non hanno ancora realizzato i loro sogni. Come mai allora questo stesso Israele si trova, dopo solo alcuni decenni, all’esterno immerso in una disputa insolubile, ed all’interno fratturato fin quasi alla paralisi? Penso che la risposta sia nel fatto che Israele non ha mai avuto il coraggio di confrontarsi direttamente con tre problemi fondamentali che lo hanno accompagnato fin dal giorno della sua nascita: il posto d’Israele nel mondo arabo, le diseguaglianze sociali e razziali, e la divisione tra laici e religiosi.

La cultura dominante in Israele ha sempre volto I suoi occhi verso l’Occidente. Ma questo Occidente, come sempre, valuta l’esistenza d’Israele, così come degli altri paesi in termini di profitto economico e valore strategico. I coloni europei di Algeria, Zimbabwe e Sudafrica sono durati più a lungo dell’insediamento sionista in Israele. La presa che gli uomini bianchi avevano sul Sudafrica era diventata un’impressionante potenza, mq quando nel mondo cambiò l’ordine delle priorità, sembrò che il muro dell’appoggio occidentale fosse un’illusione passeggera, traditrice ed ingannevole. Lo stato d’Israele in verità è il prodotto della tradizionale intercessione ebraica. Quando i padri del sionismo in Europa raccoglievano simpatie per la fondazione di uno stato ebraico, loro usavano l’argomento che l’entità che sarebbe stata creata avrebbe spinto un’onda di cultura europea avanzata nel Medio Oriente. Quest’approccio ha messo le radici nella coscienza israeliana, ed anche oggi l’Europa è la Mecca spirituale per ampia parte dell’intelligencija israeliana, specialmente per gli scrittori che vengono considerati coloro che foggiano l’opinione pubblica. Secondo me, questo è uno dei profondi conflitti interni dell’idea sionista. L’ideologia sionista emerse sullo sfondo dell’antisemitismo europeo, eppure i padri del sionismo si offrirono di fare da agenti proprio di quella cultura che coltivava l’odio per gli ebrei. Trasuda perciò che coloro che mantengono quest’approccio vedono la nascita dell’antisemitismo, l’espulsione dalla Spagna, le atrocità della Germania nazista come se fossero avvenute in un altro pianeta, in una qualche epoca immaginaria.

Il risultato di questo continuo lavarsi il cervello è che l’Europa è considerata nelle menti di molti israeliani come un faro culturale ed una fonte di ispirazione per una società illuminata. Con orgoglio ci ritraiamo ai nostri occhi ed agli occhi dei nostri simpatizzanti in Euroa come la testa di ponte della cultura europea in un mondo arretrato ed ostile. Nella loro estrema ignoranza della storia, i padri del sionismo erano ignari degli orrori della conquista europea del mondo arabo, dal Golfo Persico all’Oceano Atlantico. Non credo che cercando di ingraziarci la cultura europea abbiamo ottenuto l’ammirazione dell’Europa, ma abbiamo certamente acquisito l’aspro odio dei popoli arabi, sia come agenti di un pericoloso nemico, sia come perpetuatori dell’occupazione ad opera del medesimo nemico. I popoli arabi hanno pagato un prezzo pesantissimo per eliminare l’occupazione europea. La loro lotta è costata loro molte vittime, ma hanno formalmente ottenuto l’indipendenza. Perciò possono perdonare i torti del passato causati dalla conquista europea, ma finché esiste Israele loro non possono dichiarare di aver definitivamente sconfitto l’occupazione europea.

Lo Stato d’Israele, dal giorno in cui è stato fondato, ha dimostrato quanto sono fondati e logici i sospetti che hanno gli arabi verso di noi, dall’identificazione di Israele negli anni ’50 con i peccati dei francesi in Algeria, passando per la partecipazione di Israele all’attacco di Gran Bretagna e Francia nel 1956 contro l’Egitto che aveva nazionalizzato il Canale di Sues, terminando con il nostro attivo entusiasmo per la conquista dell’Iraq, per non parlare della nostra diretta conquista e colonizzazione di Gaza e Cisgiordania. Israele, una piccola isola, è divenuta in marchio d’infamia sull’orgogliosa fronte dei popoli arabi. I medesimi popoli arabi che hanno cancellato qualsiasi elemento straniero che aveva tentato di acquisire un territorio nella regione, e che hanno sconfitto i mongoli, i crociati e l’occupazione europea.

Lo sfondo storico della regione e l’attuale situazione di Israele come isola solitaria suscitano ansia in cuore e pensieri pessimistici. Parlerò dei problemi più significativi, quelli che mi tengono sveglio.

Il razzismo

Il razzismo e le profonde diseguaglianze sociali sono dei problemi seri che esistono in Israele fin dai suoi primi giorni. Herzl, il visionario che concepì lo stato, crebbe in Austria e divenne una grande personalità mondiale. Da giornalista entrò in contatto con diverse culture. Di contro, coloro che hanno realizzato la sua visione erano influenzati soprattutto da una mentalità da ghetto est-europeo. Gli ebrei dell’Europa orientale erano in gran parte concentrati su se stessi, e soffrivano di oppressione, isolamento e pogrom. Forse per questo l’ebreo vedeva il suo vicino e coloro che erano diversi da lui come una fonte di pericolo. Diversamente dal linguaggio parlato dagli ebrei dei paesi arabi ed islamici, il linguaggio degli ebrei est-europei era completamente diverso da quello parlato nella società circostante. Lo yiddish era la forma accettata di comunicazione tra le varie comunità esiliate dell’Europa orientale. Inoltre, gli ebrei lì non sapevano granché dell’oriente arabo e degli ebrei arabi. Ma gli ebrei dei paesi arabi erano aperti alla cultura araba nella sua epoca d’oro così come durante il suo declino, da una fiorente Andalusia ed il glorioso impero abbasside fino ai secoli bui sotto il dominio ottomano. Non c’erano contatti tra gli ebrei del ghetto e gli ebrei dei paesi arabi. Per l’abitante del ghetto, l’ebreo parlava la Mame-Loshen, lo yiddish. D’altro canto, l’ebreo arabo godeva di libertà di movimento, e sapeva che c’erano altri ebrei al mondo che erano diversi da lui per lingua e costumi, anche se non conosceva gli isolati ebrei del ghetto.

L’incontro tra gli ebrei dei paesi arabi e quelli dell’Europa orientale avvenne nella Terra d’Israele, e fu traumatico e pieno di sospetto. Gli ebrei dell’Europa orientale furono i primi a stabilirsi in Palestina e lasciarono la loro impronta sul carattere spirituale, culturale e politico del nuovo stato, anche se erano in numero limitato quando il paese fu fondato. Sono arrivato in Israele nel 1949, ed il numero di carta d’identità [in Israele non cambia ad ogni rinnovo del supporto, ma rimane uguale per tutta la vita del titolare, come il codice fiscale italiano e la matricola previdenziale americana – nota di Raffaele Ladu] che mi fu attribuito era 733440, il che vuol dire che lo stato aveva meno di tre quarti di milione di ebrei all’epoca. Ci si era aspettati che dopo l’Olocausto e la fondazione dello stato, sarebbero arrivate grandi ondate di immigrati proprio da quegli ebrei che avevano sofferto gli abominevoli crimini d’Europa. La disillusione fu amara tra i veterani del ‘Vecchio Yishuv’ (gli ebrei che risiedevano in Palestina prima del 1948). Gli ebrei europei non bussarono alle porte dello stato ebraico. Allo stesso tempo, nel 1948, un’ondata di repressioni colpì gli ebrei dei paesi arabi come rappresaglia per la sconfitta dei loro eserciti. Fino ad allora gli ebrei avevano goduto di una presenza impressionante e fiorente. Approfittavano dei loro contatti con il mondo esterno ed arricchivano i loro paesi arabi sul piano economico e culturale. Si concentravano nella città più grandi e pertanto avevano un’influenza soverchiante in paesi che erano soprattutto agricoli. Per esempio, più del 20% dei residenti della capitale irakena, Baghdad, erano ebrei. Questa era un’evenienza rara al mondo. Ma dopo che fu dichiarata la fondazione dello Stato d’Israele, l’esistenza degli ebrei in Iraq, come in altri paesi arabi, divenne impossibile. Praticamente tutti gli ebrei in quei paesi affluirono da profughi nel nuovo stato. Agli occhi del ‘Vecchio Yishuv’, questi ebrei non erano molto diversi dal nemico arabo sconfitto. Parlavano la sua lingua, avevano adottato i suoi costumi, avevano la pelle scura come loro, e davano pure nomi arabi ai loro figli. Il ‘Vecchio Yishuv’ li vedeva come primitivi ed inferiori, simili al nemico che avevano sconfitto sul campo di battaglia. Lo choc fu tremendo. Un leader del ‘Vecchio Yishuv’ espresse la sua frustrazione dicendo: ‘Lo stato fu fondato per un popolo, ed un altro è venuto ad abitarci’.

Nemmeno adesso, più di sessant’anni dopo la fondazione dello stato d’Israele, è stata saldata questa frattura. Mentalmente, prende la forma del razzismo, e socialmente si esprime come disuguaglianza di status. Curiosamente, questi due gruppi di popolazioni, tanto diversi l’uno all’altro da essere come due estranei, hanno attentamente preservato questa frattura. I sinistresi da salotto – ed in Israele, va detto, i sinistresi non hanno mai lasciato il salotto – hanno ripudiato gli ebrei orientali come vile ‘materia prima’, o, nel gergo comunista dell’epoca, come ‘lumpen-proletariat’. Questo sebbene gli immigranti dall’Egitto, dal Libano e dalla Bulgaria, e specialmente dall’Iraq, avessero portato dai paesi d’origine un impressionante curriculum comunista. L’establishment comunista d’Israele ha trattato questi immigrati con grande arroganza. All’inizio degli anni ’50 c’erano campi di immigrati in cui il 20% di chi ci abitava votava per il Partito Comunista alla Knesset. Nessuno di loro è stato promosso ad un ruolo di valore nel partito. Il Comitato Centrale del Partito Comunista era ed è tuttora più ‘esente’ da ebrei mizrahi di ogni altra istituzione dello stato. Il sospetto e l’arroganza verso le comunità mizrahi è stata una solida impenetrabile barriera nel Partito Comunista.

Il razzismo è tralignato in molte altre sfere, ed ha vergognosamente accresciuto le disuguaglianze sociali. Anche adesso, in gran parte delle istituzioni statali importanti, e specialmente in quelle accademiche e culturali, assistiamo ad una sottorappresentazione di coloro che vengono dai paesi arabi. La sinistra israeliana ha adottato questo approccio e continua la sua politica razzista, che equivale ad un suicidio politico simbolico, e la rende un culto elitario insignificante nella società israeliana. L’altra roccaforte del razzismo è la comunità ebraica ultraortodossa in Israele.

Perciò, se la sinistra israeliana mostra il suo razzismo con circospezione ed usa tattiche di diniego per nasconderlo, il blocco haredi (ultraortodosso) ashkenazita mostra la sua versione del razzismo in modo aperto e sfrontato. Agli occhi degli Haredim, gli ebrei mizrahi non sono che un pericolo esistenziale per loro. L’ebraismo mizrahi non è estremista nella sua fede. La sua pratica religiosa si è sviluppata nel contesto dell’Islam con un carattere pragmatico, ed ha creato un’ampia rete di legami culturali ed economici con l’establishment politico islamico. Non c’era in Oriente la feroce concorrenza tra gli autorevoli admorim (capi religiosi) e le sette estremiste rivali. In Iraq, Siria, Libano ed Egitto, l’establishment religioso ebraico mostrava tolleranza verso coloro che predicavano il cambiamento ed il progresso nella comunità ebraica.

Inoltre, quest’establishment non si era fossilizzato, ma aveva promulgato delle regole halachiche (di diritto religioso ebraico) che riflettevano i cambiamenti nel tempo, nel luogo, e nuove condizioni di vita. Gli Haredim ashkenaziti vedevano questo come una minaccia alla loro esistenza e pertanto trattarono i pragmatici ebrei mizrahi come proscritti ed impuri. Per generazioni avevano adottato una fede violenta, settaria ed aggressiva, e dalle loro fortezze isolazioniste loro puntavano i loro dardi razzisti verso le comunità mizrahi senza ritegno né vergogna. Anche gli ebrei mizrahi che avevano abbandonato le loro tradizioni pragmatiche per unirsi agli ultraortodossi ashkenaziti ed adottare i loro codici rigorosi furono tenuti in isolamento razzista all’interno delle loro riserve in Israele. Due anni fa sono stato costretto a condurre una dimostrazione di una sola persona a Tel Aviv contro l’orribile manifestazione di razzismo nella scuola Emmanuel, dove era stata posta una barriera nel cortile della scuola per prevenire i contatti tra le ‘pure’ ragazze ashkenazite e le ‘impure’ ragazze mizrahi. La medesima scuola imponeva di indossare un’uniforme, ma il colore scelto per le alunne ashkenazite era diverso da quello delle alunne mizrahi.

Mentre andavo a scuola a Baghdad, nei giorni in cui la Germania nazista era al potere, vidi dei graffiti sui muri: “L’ebreo è di razza inferiore” e “Hitler sta distruggendo i germi”. Questi slogan erano arrivati in Iraq direttamente da Berlino. Dopo settant’anni, queste parole continuano a passare sulla mia anima come un erpice. Secondo la dottrina razzista ultraortodossa qui in Israele, i miei figli e nipoti, che hanno un retaggio misto iracheno-russo-francese-polacco-olandese, devono anch’essi stare dietro la barriera, insieme con centinaia di migliaia di altri fanciulli. Non nego che questa strana barriera ha invaso i miei incubi. Ho dedicato la mia gioventù ad una guerra contro le influenze del razzismo europeo e specialmente del razzismo basato su religione, colore ed origine. Un terzo del mio popolo è perito per questo. Nella distante Baghdad i miei amici – sia ebrei che non ebrei – ed alcuni di loro molto amati, hanno pagato con le loro vite la lotta contro questo maledetto razzismo.

Com’è stato possible che abbiamo portato qui nelle nostre case questa malattia razzista? Quanto è orribile scoprire che un popolo che ha pagato un terribile prezzo di sangue nel secolo scorso perché una barriera razzista è stata disegnata attorno a loro ha consentito la costruzione di una tanto spregevole barriera nella sua patria?

Noi sappiamo molto bene quando e dove è avvenuto quest’abominio. Ricordiamo bene che prezzo ha pagato il nostro popolo per le barriere e la separazione sulla base del colore. Secondo me questo è un sacrilegio che è avvenuto in una scuola ebraica che sostiene di insegnare la Sacra Torah. Se un qualsiasi altro paese avesse eretto una barriera tanto offensiva, noi, come ebrei, avremmo sonoramente protestato contro di essa. E qui in Israele la sinistra ha in gran parte taciuto. L’establishment al governo non ha alzato un dito. La Corte Suprema ha decretato che la barriera dev’essere rimossa. Ma coloro che hanno eretto la barriera hanno rumorosamente annunciato che avrebbero continuato la loro politica anche a costo di andare in galera.

Ora, con il crollo della finta sinistra in Israele e l’ascesa al potere della destra in generale, e della destra haredi in particolare, la divisione razzista è diventata un fatto pressoché accettabile. Il razzismo sta gradualmente prendendo piede nella società israeliana insieme con il rafforzamento politico della destra religiosa. Il razzismo è diretto contro gli ebrei dei paesi arabi ed islamici, gli immigranti dall’Etiopia e dalla Russia, i cittadini arabi d’Israele, i palestinesi dei Territori Occupati, i profughi ed i lavoratori migranti, i gay, e la lista continua. La cresente marea di razzismo continua a montare con l’incoraggiamento dei membri del governo e della Knesset, sia attraverso delle infami dichiarazioni pubbliche sia promulgando leggi draconiane ed antidemocratiche contro gli estranei, gli stranieri e le organizzazioni per i diritti umani. In ogni caso, Israele può essere orgoglioso di avere il dubbio onore di essere lo stato più razzista del mondo sviluppato.

Religione e Stato

L’individuo – o lo stato – che adottano un testo religioso come guida spirituale ed atto pubblico che conferisce diritti di proprietà non può rimanere laico a lungo. La trasformazione della forza elettorale in potere politico dell’ebraismo haredi, sia ashkenazita che mizrahi, la struttura socio-politica è diventata estremamente complicata. Il potere politico degli haredi, così come quello dei coloni, è emerso dalla serra del sionismo laico. Ben Gurion ha legittimato i partiti religiosi quando ha predicato ossessivamente sulla coscienza ebraica. Alla Bibbia fu data importanza centrale anche per gli insegnanti di letteratura. Nel corso degli anni, da un’elezione all’altra, il Likud ha accresciuto l’influenza dell’estremismo, dacché era disposto a pagare sempre di più per arrivare al governo. Gli haredim non poterono resistere alla grande tentazione ed allungarono le mani per prendersi la loro fetta di torta senza rispettare le istituzioni laiche dello stato come i tribunali, l’esercito ed i valori democratici in genere. Israele è stato perciò un pioniere internazionale nell’incoraggiare le fazioni religiose a diventare attive nella cornice dei partiti politici. Facendo così, ha portato la distruzione sia nella religione che nelle norme della vita democratica e politica.

Il blocco religioso ha guadagnato potere ed influenza non grazie alla sua vitalità ed originalità concettuale, ma solo grazie alla corruzione dei valori politici che gli viene offerta perché sia parte di dubbi governi di coalizione. L’estraniament dei sinistresi dalla gente comune, nonché la loro arroganza, giocano un ruolo non trascurabile in questo deterioramento. L’instabilità della situazione della sicurezza e l’infrangersi del sogno impossibile di ottenere la pace e l’occupazione insieme, ha inoltre indotto sempre più gente a pensare che solo un miracolo o la grazia divina può salvarsi dalla catastrofe. Si deve ricordare che, ad onta del suo primato militare, negli ultimi quarantacinque anni Israele non ha vinto alcuna battaglia decisiva sul campo, neppure contro delle banali milizie. Dopo ogni confronto sono state create delle commissioni d’inchiesta per capire in che cosa abbiamo sbagliato. Quando un carro armato od un aereo non sono una risposta adeguata, allora fiorisce rigogliosa la tendenza verso il pensiero messianico. Il conflitto nazionalistico tra Israele ed il mondo arabo è diventato pian piano un confronto religioso tra l’ebraiso e l’islam. Noi stiamo vivendo in una gloriosa era di halacha ebraica, così come della shari’a islamica. Anno dopo anno i sostegni della democrazia e della laicità si stanno disintegrando davanti ai nostri occhi sotto la pressione del nazionalismo religioso.

Diversi anni fa Salman Rushdie scrisse che ci sono due stati teocratici al mondo – Iran ed Israele. Nel frattempo la lista si è allungata come risultato della deludente ‘primavera araba’ che è stata la speranza dei giovani laici e si è ritorta contro di loro. Nel libro ‘I versetti satanici’, Rushdie scrive: ‘Qualcosa non va nel mondo spirituale di questo pianeta … ci sono troppi demoni tra gli esseri umani che affermano di credere in Dio”. Il mio amico A. B. Yehoshua sostiene che gli ebrei possono essere normali solo in Israele. Ma penso che il visionario laico dello stato si stia rivoltando nella tomba a vedere uno stato che sta cedendo il suo destino nelle mani di demoni anormali. Bibi Netanyahu è stato portato al governo con uno slogan Haredi: ‘Bibi è buono per gli ebrei’, ovvero buono per gli haredi, con l’intenzione di distruggere la democrazia laica e di stabilire uno stato teologico repressivo. La marcia trionfale del nazionalismo religioso è tanto impressionante quanto terrificante. Migliaia di laureati fuggono ogni anno da Israele e preferiscono condurre delle vite anormali, per dirla con A. B. Yehoshua, in paesi lontani ma più normali. Li invidio, ma sono anche troppo vecchio per patire ancora il trauma dell’emigrante, e preferisco perciò rimanere come straniero in patria.

L’Occupazione

L’occupazione è un’autentica catastrofe per Israele. Il grande Israele, l’entusiasmo per la conquista, per controllare ed insediarsi nel cuore della densa popolazione palestinese, sono uno tsunami che colpisce al cuore il sionismo che si ritiene illuminato, laico e socialista. Il termine ‘Grande Israele’ non è emerso nel partito del Likud o nella yeshiva dell’ebraismo nazional-religioso, ma fu coniato nel Kibbutz Ein-harod da poeti, scrittori ed intellettuali, praticamente dalla fonte più pura del laicismo moderato. Il conflitto israelo-palestinese è il principale fattore a foggiare l’immagine d’Israele nei suoi vari aspetti politici, culturali ed economici. Nel corso degli anni, la sinistra e la destra hanno polarizzato le loro posizioni fino a creare due opposte illusioni che hanno solo una fragile base nella realtà. La sinistra descrive gli arabi come angeli innocenti, vittime della brutale aggressione israeliana. La destra coltiva un bruciante odio per gli arabi, come se fossero mostri selvaggi. Ma si sa bene che in ogni conflitto prolungato ambo le parti diventano brutali. Un famoso poeta una volta disse: ‘Ehud Barak è spregevole. Dovrebbe mandare contro di loro dei carri armati e finirli con le mitragliatrici’. E questo poeta appartiene allo stesso campo che sembra in cerca di una soluzione pacifica. Egli sa, ovviamente, che le nostre mitragliatrici hanno sparato milioni di pallottole di ogni tipo nei decenni scorsi senza alcun risultato. Tre volte abbiamo fatto del Sinai un cimitero per i soldati egiziani. Abbiamo raso al suolo Beirut e l’abbiamo occupata. Abbiamo devastato l’esercito giordano. Negli ultimi quarantacinque anni abbiamo gettato praticamente tutta l’intelligencija palestinese che resisteva in prigione. Per ogni ebreo ucciso nelle ultime tre generazioni, almeno dieci palestinesi hanno perso la vita. Le nostre armi hanno praticamente smesso di funzionare nel 1973 per tutti i morti che abbiamo fatto nelle file egiziane, e senza il ponte aereo americano saremmo rimasti senza munizioni per i fucili. Un giovanotto in un campo profughi che vive una vita da cani è pronto a morire da eroe. Non ha niente da perdere. Quanti figli possiamo offrire pronti a commettere suicidio ed a morire da eroi?

Ben poche persone in Israele e fuori hanno condannato le tremende dichiarazioni del Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. Ma Lieberman ha ragione a dire che esprime ad alta voce quello che pensano gli altri. Non ci inganniamo, la cultura in Israele è già diventata non meno avvelenata delle ali estreme dell’Islam. Dall’asilo alla vecchiaia abbiamo caricato le anime dei nostri figli con i grandi pesi dell’odio, del sospetto e dell’avversione verso l’estraneo ed il dissimile, specialmente verso gli arabi. La voce sana della cultura sta svanendo. Agli autori del libro fascista “Torat Ha-Melekh = La Torah del Re”, che invocava l’assassinio degli arabi, è stata risparmiata l’incriminazione per istigazione al razzismo ed alla violenza. Il Procuratore Generale ha chiuso il file contro di loro ed ha così consentito la vendita di questo libro odioso. Nell’Israele d’oggi stanno gradualmente sbocciando le prime gemme del fascismo culturale e spirituale. Uno scrittore con la voce grossa reclutato dall’establishment chiede che nello studio della letteratura siano scelti solo quei libri che propongono l’ethos sionista. Ironicamente, ci sono degli episodi comici anche quando ci gettiamo nell’abisso. In una cittadina vicino ad Haifa, il capo del consiglio religioso ha ordinato alla biblioteca pubblica di rinchiudere tutti i libri laici in una stanza inaccessibile al lettore curioso, ma solo su prenotazione e per poco tempo ogni volta. In questa prigione spirituale è stata sigillata la bocca del poeta che voleva usare la mitragliatrice per uccidere gli arabi, ed anche i libri scritti dagli autori dell’establishment stanno coprendosi di polvere. Pure i miei.

Continuo a definirmi un patriota israeliano, ma l’Israele che sta peggiorando sempre più, volgendo le spalle ai valori umanistici ed ai diritti dell’umanità, non può essere la mia patria spirituale.

Per sempre è un’illusione.

Quasi due terzi del territorio israeliano sono un deserto inadatto all’agricoltura tradizionale. E’ un paese con poche risorse naturali. Eppure è uno dei pochi stati fondati dopo la Seconda Guerra Mondiale che è subito diventato un paese fiorente. Grazie alla diligenza dei suoi abitanti ed alla loro ingegnosità, si sono sviluppate un’agricoltura sofisticata, alta tecnologia, e famosa competenza medica. Israele è tra i migliori paesi del mondo in molti campi. Non è per caso che ha vinto un gran numero di premi Nobel in varie discipline. Ad onta di tutti questi successi, noi rimaniamo comunque in un momento difficile. In tutta la storia, non sempre in momenti drammatici come la sconfitta totale in guerra o colossali disastri naturali, una cultura o l’altra sono state destinate all’annichilimento. Dei banali fattori hanno portato al declino ed alla morte di entità colossali come l’antica Grecia, l’antica civiltà egizia, l’impero romano, l’impero ottomano, il dominio bianco in Sudafrica e la colonizzazione francese dell’Algeria. Solo coloro a cui mancano profondità di visione e pensiero brandiscono parole altisonanti come ‘per sempre’, ‘eternamento’, e ‘generazioni senza fine’.

Penso che l’ebraismo sia pure in uno stato di profonda crisi concettuale e spirituale dopo la frantumazione di tutte le ideologie. Dal punto di vista spirituale, la religione in Israele è scaduta al livello dei cimiteri, dell’idolatria, e del buio estremismo. Sembra che i capi religiosi siano tornati indietro di alcuni secoli, ad un mondo di superstizione e crassa ignoranza. La religione che sapeva come accompagnarsi allo sviluppo della vita grazie a figure brillanti come Maimonide ora ha un disperato bisogno di una guida che porti avanti delle riforme fondamentali. La medesima crisi influenza inoltre la leadership politica. Emergono opportunisti di minuscola statura e spezza il cuore vedere come la gente condoni e pure perdoni una leadership corrotta e bugiarda che blocca la strada a capi illuminati della statura di Abba Eban e Moshe Sharrett.

Israele è minacciato da gravi pericoli per la sua esistenza se l’attuale leadership non ha la saggezza di capire che Israele non è posto nelle pacifiche regioni dell’Europa settentrionale, ma nel turbolento centro di un tormentato Medio Oriente. Non abbiamo posto nel Medio Oriente del futuro dacché ci siamo resi detestabili per esso, dopo aver rimarcato giorno e notte che esso è detestabile per noi. Tanto detestabile. Se non troviamo una soluzione che vada oltre la mitragliatrice ed il carro armato – ed abbiamo già visto che non sono di alcun aiuto contro un ragazzo scalzo con una pietra in mano – noi perderemo tutto. Lo Stato d’Israele può diventare un fenomeno passeggero come il Primo ed il Secondo Tempio.

La cosa peggiore è che i nostri vicini sono nella medesima tragica situazione; non hanno un Gandhi e non abbiamo nemmeno un mini-Roosevelt.

(unquote)

Le lamentele dell'ebreo arabo Sami Michael nei confronti degli ultraortodossi ashkenaziti che lo discriminano sono molto simili a quelle dei bisessuali nei confronti degli omosessuali.

Traduzione dall'inglese all'italiano e commenti di Raffaele Ladu