VENERDÌ, 25 NOVEMBRE 2011
Ha destato scalpore l’articolo comparso sul New York Times (ripreso anche, fra gli altri quotidiani, da La Repubblica) firmato dalla scrittrice femminista e attivista per i diritti GLBT Sarah Schulman.
La storia, per farla breve , riguarda una campagna pubblicitaria lanciata dal ministero del turismo israeliano per promuovere il proprio paese come meta per il turismo GLBT. La Schulman accusa Israele di utilizzare una “falsa” apertura nei confronti delle persone omosessuali per coprire le atrocità che vengono quotidianamente perpetrate nei confronti del popolo palestinese. I diritti civili GLBT, quindi, quelli che sembrano piacere, in alcuni luoghi, persino alla destra “moderata” per mascherare la violenza contro i diritti delle persone palestinesi.
Ho trovato particolarmente interessante l’articolo e, in parte, mi trova abbastanza d’accordo. Vorrei però cercare di portare alla discussione qualche altra riflessione.
L’omofobia esiste e non ha un colore politico, non ha una bandiera, non ha dei nemici così facilmente riconoscibili. Certo c’è l’opinione pubblica che nel corso dei decenni è mutata anche grazie all’impegno delle persone GLBT e delle associazioni. Sicuramente alcuni paesi si sono impegnati più di altri per promuovere politiche di civiltà, integrazione e diritti. Allo stesso modo ci sono paesi che continuano a condannare l’omosessualità anche attraverso punizioni che arrivano alla pena di morte.
Ma il problema dell’omofobia è un problema più sottile e radicato da cui Israele non può sottrarsi con politiche che, fra le altre cose, sono programmi commerciali. Certo esiste un “paradiso” glbt dentro Israele ma non c’è una vera e compiuta libertà. I gay pride che si svolgono non possono uscire da determinati percorsi e sono garantiti con grande impiego di forze dell’ordine.
Il problema è che, a parte pochissimi casi, sono le religioni le istituzioni che promuovono maggiormente l’omofobia. Ci sono religioni che hanno maggior presa sui cittadini (come può essere quella musulmana) a tal punto da diventare legge e ci sono religioni che, anche se mantengono un enorme potere (come quella cattolica) vengono accettate dalla maggior parte delle persone più come una tradizione che come una legge.
Gli estremisti sono ovunque e in qualsiasi religione. Israele non è un paese gay friendly più di quanto possa esserlo l’Italia.
Secondo punto.
Se Israele non ama particolarmente gli omosessuali direi che i palestinesi non sono da meno.
So che non si riesce mai ad affrontare, senza cadere in facili contrapposizioni, l’argomento. Se ti dici pro diritti degli israeliani a vivere su quel territorio diventi un fascista che vuole annientare il popolo palestinese, se ti dici pro diritti dei palestinesi diventi un nazista che vuol assassinare tutto il popolo israeliano.
Siam fatti così, ci piace urlare senza riflettere.
La condizione dei palestinesi la conosciamo tutti/e non è così da oggi, purtroppo, lo dico consapevole delle mie parole, da figlio di un uomo che da giovane raccoglieva medicinali e faceva collette alimentari per il popolo palestinese. Le condizioni di vita di questo popolo sono estreme, nessun paese del mondo “occidentale” è disposto a riconoscere questa situazione per vari motivi che vanno dalla tragica storia degli ebrei a ragioni esclusivamente economiche.
Ma credo che si possa serenamente dire che la situazione delle persone glbt (e non parlo di diritti come quelli che richiediamo noi, parlo di sopravvivenza) nel popolo palestinese non goda di buona salute.
Come dicevo è un argomento spinosissimo e le mie sono solo riflessioni al vento. Trovo che la Schulman abbia ragione sulla necessità di non utilizzare il popolo GLBT come manifesto un po’ ipocrita e un po’ fasullo sulla promozione della “civiltà” israeliana soprattutto se lo si fa per ragioni economiche. Ma starei anche attento a idealizzare che sta dall’altra parte del muro soprattutto se chi ci sta costruisce, a sua volta, muri contro chi ne ha più bisogno.
Marino Buzzi
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