lunedì 10 giugno 2013

Strade che divergono / Judith Butler

Israele è uno strano paese: coloro che sono più pronti a lodarlo per lo stato dei diritti LGBT (migliore di quello italiano, ma non paragonabile a quello olandese) sono anche quelli che più disprezzano Judith Butler.

Il suo libro appena pubblicato in Italia

• Strade che divergono : Ebraicità e critica del sionismo / Judith Butler ; traduzione di Fabio De Leonardis. – Milano : Raffaello Cortina Editore, 2013. – ISBN 9788860306916. – Prezzo EUR 26,50

Riassume ciò che nel suo pensiero la porta a contestare il sionismo politico, ovvero il movimento che ha portato a fondare lo Stato d’Israele. Quando avrò finito di leggere il libro, lo recensirò; per il momento mi pare opportuno riportare questo suo brano (tratto dall’introduzione, pp. 6-8):
Anche se tale conclusione è inaccettabile, non sembra esservi un modo facile per aggirare questo paradosso. Un argomento, tuttavia, appare chiaro: l’uguaglianza, la giustizia, la coabitazione e la critica della violenza di stato possono rimanere valori ebraici solo se essi non sono esclusivamente ebraici. Questo significa che l’articolazione di tali valori deve negare il primato e l’esclusività della prospettiva ebraica, deve subire una dispersione. Anzi, come spero di dimostrare, questa dispersione è una condizione di possibilità per pensare la giustizia, una condizione di cui faremmo bene, di questi tempi, a ricordarci. Si potrebbe replicare: “Ah, la dispersione – un valore ebraico! Derivato dalla dispersione messianica e da altre figure teologiche che rappresentano la diaspora! Cerchi di allontanarti dall’ebraicità, ma non ci riesci!”. Se, tuttavia, la questione della relazione etica con il non ebreo è quella che determina ciò che è ebraico, allora non possiamo cogliere o consolidare ciò che è ebraico in questa relazione. La relazionalità soppianta l’ontologia, ed è pure un bene. Il punto non è dare stabilità all’ontologia dell’ebreo o dell’ebraicità, bensì comprendere le implicazioni etiche e politiche di una relazione con l’alterità che è irreversibile e determinante, e senza la quale non possiamo capire termini fondamentali come uguaglianza o giustizia. Tale relazione, che certamente non è singolare, sarà un passaggio obbligato per andare oltre l’identità e la nazione come strutture determinanti. Essa pone la relazione con l’alterità come costitutiva dell’identità, vale a dire che la relazione con l’alterità interrompe l’identità, e che questa interruzione è la condizione della relazionalità etica. Si tratta di una concezione ebraica? Sì e no.

(…)

Può sembrare un paradosso mettere l’alterità o l’”interruzione” al centro delle relazioni etiche. Ma per saperlo dobbiamo prima considerare che cosa significano questi termini. Si potrebbe argomentare che il tratto distintivo dell’identità ebraica sia il suo essere interrotta dall’alterità, e che la relazione con i gentili definisca non solo la sua condizione diasporica, ma anche una delle sue fondamentali relazioni etiche. Sebbene tale affermazione possa essere vera (nel senso che fa parte di un insieme di affermazioni che sono vere), essa riesce ad attribuire all’alterità solo il ruolo di predicato di un soggetto preesistente. La relazione con l’alterità diventa un predicato dell’”essere ebreo”. È ben diverso intendere quella stessa relazione come qualcosa che sfida l’idea di “ebreo” come una sorta di essere statico, che può essere descritto adeguatamente come soggetto. Se “essere” quel soggetto significa essere già entrati in una certa modalità relazionale, allora l’”essere” cede il passo a una “modalità di connessione” (suggerendo un modo per pensare a Lévinas in rapporto a Winnicott). Al fine di riflettere su questo problema, il sostenere che l’essere vada ripensato come modalità del relazionarsi, o l’insistere sul fatto che una modalità del relazionarsi contesti l’ontologia, è in fin dei conti meno importante rispetto al primato della relazionalità. Inoltre, il genere di relazionalità in questione “interrompe” o sfida il carattere unitario del soggetto, il suo essere identico a se stesso e la sua univocità. In altre parole, al “soggetto” accade qualcosa che lo sposta dal centro del mondo; una richiesta proveniente da un altro luogo mi rivendica, mi si impone, o arriva persino a provocare una divisione al mio interno, e solo tramite questa scissione del mio io ho una possibilità di entrare in relazione con un altro. Se qualcuno provasse ad affermare che questa è la formulazione dell’”etica ebraica” proposta in questo testo, avrebbe solo parzialmente ragione. Essa è ebraica/non ebraica, e il suo senso sta appunto in questa disgiunzione che congiunge. Comprendere questa prospettiva, di per sé necessariamente duplice, sarà importante per cogliere perché una prospettiva diasporica possa essere cruciale per la teorizzazione della coabitazione e del binazionalismo, purché sia chiaro che la “convivenza” non è praticabile in una situazione di assoggettamento coloniale che non ratifichi questa condizione politica. Di conseguenza, i progetti di coesistenza possono partire solo dallo smantellamento del sionismo politico.
La mia personale posizione la si può definire postsionista: il sionismo ha tanti inconvenienti, che la Butler spiega meglio di me; però ha creato una cosa molto importante per gli ebrei come lo Stato d’Israele – ed è uno stato da cambiare, non da abbattere. Non è una posizione troppo diversa da quella di Yoram Kaniuk z.l., espressa qui.

Le argomentazioni della Butler sono coerenti con quelle delle sue teorie queer, ed un brano dell’introduzione che non ho ritenuto necessario riportare è stato quello in cui la Butler cita Hannah Arendt, nel punto in cui ritiene delitto capitale, quello che a suo avviso meritava il capestro per Adolf Eichmann, l’aver voluto scegliere con chi coabitare la Terra.

I nazisti non volevano abitare la Terra insieme con gli ebrei; gli omofobi non vogliono abitarla insieme con i gay; il sogno neppur tanto nascosto della destra israeliana è mandare i palestinesi a vivere in Giordania.

Se non è etico né per la Arendt, né per la Butler scegliere con chi condividere la Terra, occorre un’etica prima ancora di una politica della convivenza. E la base di quest’etica è basare l’identità non sull’essenza, ma sulla relazione.

Questo significa anche rendersi (selettivamente) permeabili agli influssi che vengono dalle altre persone, ed includerli nella propria identità nella misura del possibile e dell’opportuno. Per secoli gli ebrei si sono trovati a svolgere questo ruolo di interfaccia tra diverse culture, e la Butler vuole che questo continui.

Ci sono degli omofobi che sembrano scimmiottare un’argomentazione della Butler, dacché rimproverano alle persone omosessuali di non essere aperte all’alterità, ed in particolare all’altro sesso.

In realtà, partono da un punto di partenza diametralmente opposto: mentre per la Butler l’identità deve basarsi sulla relazione, per queste persone si deve basare sull’essenza.

Ovvero, per costoro ogni uomo e donna empirici valgono come incarnazioni del Maschile e del Femminile; codesti principi sono fatti per entrare in relazione l’uno con l’altro, ma solo all’interno della forma sociale della famiglia, e durante l’incontro sessuale; il contatto tra queste essenze non ne cambia la natura, non più di quanto un ricevimento in ambasciata cambi le posizioni che due ambasciatori esprimono a nome dei rispettivi governi.

Il rapporto tra l’uomo e la donna empirici deve riecheggiare per queste persone il rapporto tra questi sommi principi – non è difficile ricordare a questo genere di omofobi che contro questa concezione della sessualità la Bibbia stessa mette in guardia, in quanto era quella che ispirava i culti della fertilità cananei contro i quali il Levitico lancia strali e proibizioni.

Ed il Cantico dei Cantici, preso spesso a modello per sposi e spose ebrei e cristiani, narra le avventure di una coppia di amanti un po’ monelli prima che l’amor loro trionfi, non i preparativi del Gran Sacerdote di Marduk e della Gran Sacerdotessa di Ishtar per il sacro coito che garantirà un buon raccolto!

In realtà l’esperienza comune mostra che ogni persona ha componenti psichiche sia “maschili” che “femminili”, e che tali componenti entrano in azione in tutte le situazioni sociali e perfino quando una persona è sola – perciò l’omosessuale non è privo di relazione con ciò che la tradizione assegna al sesso opposto al suo. Il fenomeno delle “frociarole”, ovvero delle moltissime donne che preferiscono avere amici gay ad amici etero, è la riprova di come l’essere omosessuale non voglia dire essere chiuso all’altro sesso.

Che le identità personali nascano dalla relazione con altre persone e non siano lo sviluppo di un’essenza non è necessario apprenderlo dalla Butler (che prende ad esempio gli ebrei nel brano citato, ma in tutta la sua opera parla di ognuno) – chiunque se ne rende conto esaminando la sua stessa vita, e chiedendosi perché mai si consiglia sempre a chi vuole imparare davvero di cercarsi un maestro e non mettersi a studiare da solo.

Raffaele Ladu

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